Stato permanente di guerra. Stati di guerra permanente

nodo globale

Così introduce il suo “Le frontiere maledette del Medio Oriente” lo storico Filippo Gaja, nel lontano 1991: «Nell’autunno del 1988 lessi una agghiacciante considerazione espressa da Israel Shahak, presidente della Lega israeliana dei diritti dell’uomo, che scriveva: «…In quali condizioni l’attuale gruppo dirigente israeliano potrà operare il desiderato “trasferimento” di grande ampiezza [l’argomento era l’espulsione dei palestinesi dai territori occupati, n.d.a.] e continuare nello stesso tempo a ricevere l’ugualmente desiderato denaro americano? (…) La migliore risposta che io posso proporre a questa domanda essenziale è che il “trasferimento” potrà essere tentato in due circostanze: o per una guerra a iniziativa di Israele, o in una situazione in cui gli interessi americani in Medio Oriente, cioè i giacimenti petroliferi del Golfo, fossero seriamente minacciati e i regimi filoamericani fossero in pericolo di tracollo. Israele si presenterà in questo caso come il solo alleato di peso per gli americani nella regione. (…) La mia opinione è che (…) Israele diverrà un alleato talmente importante per gli Stati Uniti che “in quanto difensore della civiltà occidentale nella regione” (espressione spesso usata dalla propaganda sionista negli Stati Uniti, anche se un po’ meno da quando la televisione ha mostrato le immagini dell’Intifada) avrà diritto di applicare una politica di tipo nazista, come ad esempio, l’espulsione totale. Non dimentichiamo che anche i nazisti all’epoca pretendevano di “difendere la civiltà occidentale contro il comunismo” e che molti lo credettero …» [nota 1]

Questa lunga citazione del campione dei diritti umani israeliano è certo agghiacciante, ma lo è ancor di più perché in realtà esprime il lucido pragmatismo dello stato israeliano, che ha già espulso milioni di palestinesi ed esercita un dominio totale e totalizzante sull’attuale popolazione palestinese. E questo stato di cose perdura da periodo della Dichiarazione di Balfour del 1917, il primo progetto di creazione di uno stato ebraico in Palestina elaborato dall’imperialismo inglese e dagli esponenti del capitalismo sionista.

Sono passati quasi 30 anni da questa illuminante dichiarazione di Israel Shahak e possiamo affermare che attualmente, nella Palestina occupata, esiste uno stato permanente di guerra vissuto sulla propria pelle dal popolo palestinese, determinato dall’esistenza dello Stato di guerra permanente israeliano-sionista, per l’appunto.

Questo contesto non sarebbe tale senza il trattato di alleanza tra Stati Uniti e Israele. Gli interessi strategici tra i due stati si integrano e coincidono nella ricerca costante del dominio del Medio Oriente e della vigilanza su tutti i paesi arabi. Interessi che abbracciano in una morsa letale paesi come la Turchia, l’Iran, il Pakistan e aree come il Golfo Persico e l’Africa.

Tutta quest’area geopolitica è stata trasformata in un immenso campo di investimenti e di consumo, di guerre di rapina e dominio su risorse e mercati.

Il capitale multinazionale, le borghesie locali (islamiche e “laiche”) sono gli attori fondamentali dello sgretolamento dei vecchi stati che non accettano la totale subordinazione al dominio imperialistico nelle sue nuove forme. L’attuale stato permanente di guerra, di conflitto, di terrorismo – di stato e di quello “privato”, dei mercenari internazionali – in quest’area si alimenta e produce costantemente nuovi progetti che assomigliano sempre di più a una nuova colonizzazione dettata dai grandi gruppi multinazionali e multi-produttivi e dagli stati della NATO. Il caso della Libia attuale è l’esempio di come dalla guerra di distruzione di uno Stato si passi senza indugi al banco di spartizione di territori, ricchezze naturali, piani di ricostruzione, quote di mercato, ricostruzione dell’esercito, della polizia, della sicurezza. Libia, ora; poi toccherà alla Siria?

Secondo la massiccia propaganda mass-mediatica del nuovo eurocentrismo e del suo solido alleato USA, siamo entrati in una nuova fase della “guerra globale al terrorismo”. Ma, nonostante gli sforzi, non riesce a nascondere il fatto che l’ISIS sia stato partorito e alimentato a suo tempo dalle strategie di intelligence occidentali, come Bin Laden prima, e che risulti finanziato e armato da paesi come la Turchia, l’Arabia Saudita (per citarne qualcuno) con i quali intrattiene cordiali relazioni e alleanze strategiche. Gli stessi stati che finanziano le organizzazioni terroristiche perseguono una politica estera fitta di incontri di affari con gli stati dell’Unione Europea che ora devono combatterle, le stesse, all’interno dei suoi confini.

La domanda che dobbiamo porci è: dove porta questa nuova campagna antiterroristica? Forse a un “nuovo ordine mondiale” in via di ricostruzione? Lasciamo aperte queste domande, ci torneremo su nel prossimo futuro.

Quello che è più chiaro in questo periodo storico è che la militarizzazione, le operazioni segrete di intelligence e di guerra vera e propria stanno supportando l’espansione del libero mercato a nuove frontiere. Questa dinamica in atto, tra l’altro, favorisce precisi gruppi di potere senza scrupoli, cioè a dire i colossi conglomerati del petrolio e gli stretti alleati del complesso militare-industriale anglo-americano e del polo imperialista europeo, con in testa l’asse franco-tedesco. Le fusioni-integrazioni di questi colossi, le loro aree di produzione hanno lo scopo di aumentare la cooperazione nella sfera dell’intelligence, delle operazioni sotto copertura e congiunta dei vari corpi speciali.

Lo stesso sviluppo della macchina da guerra USA-NATO (e dei loro alleati) ha favorito e sta favorendo un’accumulazione senza precedenti della ricchezza privata di questi gruppi. Per cogliere la dimensione degli interessi dei nuovi “signori della guerra” riportiamo alcuni dati, forniti dal Ministero della Difesa degli Stati Uniti:

  1. Nell’anno fiscale 2008, il giro d’affari del mercato delle armi è stato di 32 miliardi di dollari contro i 12 del 2005. Nel 2014 ha raggiunto i 71,8 miliardi. Nonostante una lieve flessione nel 2015, la è evidente che si tratta di un mercato che non risente la crisi, dal momento che a livello globale la corsa al riarmo si è intensificata senza sosta.

  2. In 130 paesi sono presenti 766 basi USA, senza contare quelle in zona di guerra. Ogni guerra, come per incanto, ha seminato basi militari nel territorio in cui si è sviluppata. Dopo il bombardamento dell’Iraq nel 1991, gli Stati Uniti si sono installati in Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, Qatar, Oman, Emirati Arabi Uniti. Dopo quello del 1999 in Jugoslavia si sono stanziate nuove basi in Kosovo, Albania, Bulgaria, Macedonia, Ungheria, Bosnia e Croazia. Dopo quelli in Afghanistan del 2001/2002 nuove basi sono sorte in Afghanistan, Pakistan, Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan e Georgia. Dopo la guerra in Iraq iniziata nel 2003, gli USA hanno a disposizione anche questo territorio. Una sorta di colonizzazione militare che non si ferma. Senza scordare che nel solo territorio europeo, oltre alle basi, permangono 200 bombe nucleari USA. In Italia sarebbero dalle 70 alle 90. [nota 2]

Questo delirio militarista americano e dei suoi alleati è davvero determinato dalla “lotta al terrorismo internazionale” elaborata sin dai primi anni ’80? Cina e Russia non ci credono proprio, e non solo loro.

Un passo dopo l’altro in tutto il Medio Oriente, nel nord-centro Africa in fiamme, vengono ridisegnati nuovi contesti di guerra, di infiniti conflitti e di interventi imperialistici. Un processo non privo di contraddizioni, tensioni, antagonismi per ridefinire, sul corpo vivo dei popoli di questa immensa area, i termini complessivi della supremazia e dell’egemonia. Anche le cosiddette “potenze regionali” sono attraversate dallo stesso processo. Col pretesto di combattere lo “Stato Islamico”, divenuto il nemico globale (che ridefinisce nuove e inedite alleanze) si prepara un nefasto scenario di escalation militare che si estende a dismisura.

Questo scenario non si riferisce solo alla dimensione “esterna”. Il cosiddetto fronte interno diventa un terreno molto scivoloso in cui urge stabilizzare l’emergenza; sempre più, le espressioni di dissenso, di antagonismo e di lotta vengono affrontate secondo le regole della pacificazione interna. Ma su questo ritorneremo a breve con un ulteriore approfondimento.

Da tempo, ben prima della rinascita dell’ISIS, per affrontare i vari conflitti nelle diverse aree di crisi dove sono in gioco gli interessi vitali dell’occidente capitalistico, 30 stati della NATO con israele e 10 stati arabi hanno già deciso come riorganizzarsi. In parole povere come sviluppare tutte le “strutture di guerra permanente” che devono essere operative in tempi rapidi e flessibili, adeguate ad ogni tipo di intervento, sia di guerra vera e propria che di pacificazione manu militari. A fronte di questi scenari in continuo movimento, all’interno di tutti i contesti di lotta e di resistenza anticapitalistica bisogna costruire un alto grado di solidarietà internazionalista, un nuovo impegno contro questi barbari sviluppi.

La relazione tra gli obiettivi della guerra e l’esistenza del capitalismo globale dovrà essere rivitalizzata. Alle vecchie analisi bisogna sovrapporre nuove analisi concrete delle situazioni concrete … produrre inchiesta e controinformazione, e su queste basi, ricostruire una nuova consapevolezza antimperialista e internazionalista.

Diversamente regnerà sovrana la più completa ignoranza dei fenomeni, la mobilitazione reazionaria delle masse a supporto dell’ideologia dominante della necessità della guerra. La globalizzazione dell’indifferenza che fa scomparire e rende invisibili i milioni di morti delle ultime guerre del sud del Mediterraneo. Anche queste vere e proprie armi di distruzione delle coscienze, utilizzate per prevenire e depotenziare la rinascita di un genuino movimento contro la guerra e la globalizzazione capitalistica. La nostra solidarietà nei confronti del popolo palestinese e di quello kurdo, alla loro resistenza, oggi acquista nuovi significati … perché sono tra gli unici esempi di resistenza alla barbarie che stanno subendo tutti i popoli nella regione del sud Mediterraneo e dell’area geopolitica mediorientale: quella della guerra imperialista occidentale e quella delle borghesie arabe reazionarie, islamiche o laiche che siano.

Note:


1) Le frontiere maledette del Medio Oriente, Filippo Gaja, Maquis Editore – Febbraio 1991;

2) Standing army Un viaggio alla scoperta dell’universo delle basi militari americane, una delle realtà più influenti, e meno conosciute, dei nostri tempi – film documentario di Thomas Fazi ed Enrico Parenti – ©EffendemFilm2008/indydoc.it