Non solo articolo 18

quarto-stato
La discussione sui giornali su articolo 18 si/no sta distogliendo  l’attenzione dalle altre pericolose novità contenute nel cosiddetto Jobs Act parte seconda. Come scrive il compagno, nel suo intervento precedente, tutto l’impianto del Jobs Act, quello già approvato e quello in discussione in questi giorni, altro non è, se non l’ennesimo attacco ai diritti del lavoro, il cui vero obbiettivo è rafforzare la precarizzazione dei rapporti di lavoro, delineandolo come nuovo modello del rapporto di lavoro. E su questa direttrice, già si era mossa la riforma Fornero, dove veniva prevista l’estensione del licenziamento individuale senza obbligo di reintegro, ma prevedendo solo un’indennità in base agli anni di servizio. Il reintegro rimane solo per i licenziamenti discriminatori, la cui prova ricade sulla/sul licenziata/o.
Tutto questo con buona pace dell’articolo 18.
La parte del Jobs Act già approvato, ha cancellato, per il contratto a tempo determinato, l’obbligo della motivazione e la possibilità, per le aziende, di poter prorogare il contratto per ben cinque volte.
Appare chiaro, dunque, che tutte queste norme, introdotte un po’ alla volta, non fanno altro che rafforzare il disegno di precarizzazione insite nelle cosiddette riforme.
La legge delega di integrazione al Jobs Act, già deliberata dalla commissione lavoro, introduce norme che vanno sempre più verso una liberalizzazione delle norme sul lavoro.
Proviamo a capire quali sono queste modiche.
Il contratto a tutele crescenti:
Con il contratto a tutele crescenti, ad esempio, l’ingresso al lavoro avrà un periodo di prova (oggi regolato dai CCNL) della durata di sei mesi, durante il quale la/il lavoratrice/ore può essere licenziata/o senza alcun indennizzo e tutela.
Se si supera il periodo di prova, ci sarà una seconda fase di tre anni, dove il licenziamento è sempre possibile dietro il pagamento di una indennità in rapporto al periodo di servizio.
Solo trascorsi i tre anni la/il lavoratrice/ore godrà delle tutele del rapporto a tempo indeterminato.
Di fatto le cosiddette tutele crescenti altro non sono che l’estensione del rapporto a tempo determinato senza chiamarlo con il suo vero nome.
Di fatto vanno nella direzione di eludere la norma che stabilisce un massimo del 20% di rapporti a tempo determinato, rispetto ai contratti a tempo indeterminato.
Altro punto contenuto nella legge delega è quello che prevede, nel caso vengano avviati processi di ristrutturazione aziendale, la possibilità del passaggio della/del lavoratrice/ore dalla mansione svolta ad un’altra mansione, fino ad arrivare anche al demansionamento.
Per finire sono previste delle norme per aumentare il controllo sulla prestazione lavorativa e viene rivista la disciplina dei controlli anche con l’utilizzo di nuove tecnologie per la sorveglianza ed il tele-lavoro.
Questi controlli sembrano ispirati all’idea del carcere panottico, elaborato da Jeremy Bentham, ma vengono estesi, ora, ai luoghi di lavoro, poi magari a tutta la società. (1)
Le cose su elencate, trattandosi ancora di proposte e bozze discussione, quasi certamente subiranno delle modifiche, forse verranno attenuate o magari peggioreranno ulteriormente.
Niente di nuovo dunque, ma semplicemente ancora una volta assistiamo, in un gioco di ruoli fra sindacati e governo con accuse di thacherismo da una parte e accuse di conservazione dall’altra, all’ennesimo attacco ai diritti del lavoro, in ossequio alle politiche di austerity volute dal capitale finanziario e portate avanti con protervia arroganza da FMI e BCE (vedi Grecia).
Sono ormai anni che il modello di produzione capitalistico sta erodendo quanto conquistato negli anni passati, perdita di posti di lavoro e diritti, rafforzando sempre di più lo stato di precarizzazione che, dai luoghi di lavoro, si è di fatto allargata a tutti i rapporti della società, cercando di mettere l’una contro l’altra generazioni diverse.
Che fare allora? In questi anni abbiamo visto crescere la resistenza, da Seattle a Genova, da Occupy Wall Street agli Indignados spagnoli e, ancora ieri a Napoli, dove i manifestanti si sono scontrati con la polizia posta a difesa del direttivo della BCE riunita a Capodimonte.
Abbiamo sentito parole d’ordine che rivendicano l’equiparazione dei salari di tutti i lavoratori alle medie più alte esistenti nella comunità europea. Si rivendica la riduzione generalizzata d’orario, il reddito sociale minimo, il recupero delle garanzie pensionistiche.
Ma non solo: coscienti che il capitale utilizza la guerra per aumentare il controllo e il dominio, («La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi» così scriveva, già a fine ‘800, Carl von Clausewitz) si oppone ad essa e chiede la fine delle guerre imperialiste.
E’ chiaro dunque che, per contrastare il capitale, occorre ricreare le condizioni perché questo patrimonio di lotte non vada
disperso e anzi si giunga a una ricomposizione e ad una coniugazione di tutti i movimenti di resistenza, che sia in grado
di opporsi ai processi di ristrutturazione del capitale.
Quale siano i mezzi, perché tutto sia possibile, sarà la questione che ogni movimento, nel futuro, dovrà affrontare.

Néstor Roca

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(1) http://it.wikipedia.org/wiki/Panopticon