Una seconda lezione greca, e altre lezioni…

banksy grecia

Dove eravamo rimasti?

La storia viaggia veloce (alla faccia di Francis Fukuyama che negli anni novanta ne annunciò avventatamente la fine) viverla e capirla allo stesso tempo è un compito arduo, analizzarla e cercare di comunicare le proprie impressioni, senza cadere in formule retoriche dettate dai prismi degli apriori ideologici, è terreno minato. A ogni passo si rischia di rompere un tabù, dissacrare un mito, riempire di merda le statue che altri, con storie diverse dalle nostre alle spalle, hanno buttato giù e dissacrato, sotto il nostro sguardo perplesso.

Infatti, nonostante avessimo da sempre messo al centro della nostra critica il socialismo reale e i suoi pagliacceschi e macabri epigoni, vedere trascinare nella polvere la statua di Lenin è stato doloroso. Ed è ancor più doloroso oggi, vedere la bandiera yankee sventolare all’Avana, in una Cuba sfiancata da cinquanta anni di embargo. Lo stesso embargo che ha stremato il Vietnam che oggi in piena riconversione neocapitalista, ritorna nell’alveo della zona d’influenza degli USA con un accordo di cooperazione militare pensato e messo in atto in funzione anti-cinese.

La diplomazia del dollaro riesce laddove hanno fallito i bombardamenti e le campagne militari d’invasione.

L’idea di una rivoluzione comunista è quindi morta e sepolta?

La rivoluzione d’Ottobre ha prodotto una rottura epocale con l’ideologia borghese e creato il mito dei soviet; avanguardia di un proletariato mondiale capace di affossare il capitale; l’onda lunga di quel momento storico è arrivata dritta nel bagaglio culturale e politico dei movimenti antagonisti post sessantotto, sino a infrangersi sulle macerie del muro di Berlino.

Il senso profondo di quell’insegnamento non si è però infranto, così come non si è infranta la bella idea del comunismo; inteso come percorso di liberazione dalla società capitalista e realizzazione di una società libera dalle gabbie in cui la borghesia l’ha rinchiusa. Il superamento della società  capitalista è quindi più che mai all’ordine del giorno e noi intendiamo lavorare in questo senso, proprio perché crediamo nel futuro, e in quel futuro non c è posto per lo sfruttamento capitalistico.

Detto questo, é evidente che occorre sperimentare nuove strategie di rottura dell’ordine esistente dentro la complessità del presente, come dice Danilo Zolo nell’introduzione di “Potere e complessità sociale” di Niklas  Luhmann : “Se è vero che l’evoluzione sociale va nel senso di un aumento costante della complessità, della contingenza e della riflessività dei processi sociali, allora, anche da questo punto di vista, s’impone al marxismo ortodosso un profondo ripensamento del suo codice di certezze. Allora il socialismo non può essere pensato come una sorta di progetto storico immanente, che si sviluppa “dialetticamente” e infallibile dentro i fatti e nonostante le smentite dei fatti. Né la società socialista può essere rappresentata secondo le grandiose e ingenue semplificazioni del messianismo politico ottocentesco.” e più avanti: “Lungi dall’essere considerato un evento ineluttabile, il socialismo deve insomma essere considerato una conquista evolutiva contingente e difficile, perché fortemente contrastata dalle tendenze entropiche “naturali”: un progetto improbabile e rischioso della libertà, anziché l’esito necessario di una legge provvidenziale della storia.”

Che i processi di liberazione dalla schiavitù capitalista non siano per niente determinati storicamente lo dimostrano chiaramente gli esempi incompiuti o abortiti delle rivoluzioni citate più sopra. Si può obbiettare che il disastro di quelle esperienze storiche è il frutto amaro di una visione egemonica e poco internazionalista del “socialismo reale” e questo è certamente vero, ma le tendenze entropiche “naturali” di cui parla Zolo sono le manifestazioni del potere degradante dell’ideologia del denaro, la feticizzazione della merce , l’alienazione. Non basta prendere il potere, occorre, nel percorso di liberazione delle lotte, determinarsi fuori dalle logiche produzione/profitto/denaro/potere. Tra capitale e lavoro non è possibile nessuna mediazione, altrimenti, a ogni esperienza rivoluzionaria che fallisce, il capitale aumenta la sua conoscenza e crea nuovi anticorpi contro il proletariato, inchiodandolo dentro rapporti sociali comandati dalle leggi del mercato.

Questo presupposto ci porta a ragionare criticamente intorno all’esperienza politica di “governo di sinistra ” in Grecia e in parte in Spagna, partendo proprio da quest’ultima e utilizzando come base l’intervento di Pablo Iglesias dal titolo” La nostra strategia” pubblicato su “le Monde Diplomatique” di luglio 2015, per giustificare la lenta e progressiva marcia di Podemos dentro le istituzioni.

Iglesias, dopo una lunga tirata sul loro percorso di difesa dei diritti sociali a fianco dei movimenti e della lotta alla corruzione afferma :”Il nostro obiettivo è sempre stato quello di occupare la centralità del campo politico tirando partito dalla crisi. Questo non ha niente a che vedere con il “centro” politico del discorso borghese; in termini gramsciani il nostro fine in questa guerra di opposizione è stato quello di creare un nuovo “senso comune” che ci permetta di occupare una posizione trasversale nel cuore dello spettro politico recentemente riconfigurato.” E più avanti: “L’apparizione di Ciudadanos* ci rimpiazza dentro una logica che noi abbiamo sin dall’inizio considerato come perdente: quella dell’asse sinistra-destra tradizionale. Noi pensiamo che su questa base non ci sia possibilità di cambiamento in Spagna. Il pericolo oggi sarebbe quello di essere rinviati a quest’asse e non riuscire a definire una nuova centralità. In questo paesaggio il discorso plebeo di Podemos, organizzato tra “quelli che stanno in basso, e “quelli che stanno in alto” (l’oligarchia) potrebbe essere interpretato come il solito discorso dell’estrema sinistra, fatto che lo esporrebbe a perdere la sua trasversalità e lo priverebbe della possibilità di occupare la nuova centralità

Non vale la pena andare oltre con le citazioni per avere chiaro che Pablo Iglesias non vuole essere confuso con l’estrema sinistra (e la sinistra di classe non vuole essere confusa con lui, questo è certo) tutto impegnato com’è a occupare quella che lui chiama “nuova centralità” ma che in effetti è centro politico, punto. Durante tutta l’intervista Iglesias sembra volere rassicurare, imbonire, lisciare il pelo ai poteri che dice di volere combattere. Ci fosse un abbozzo di progetto per il superamento del sistema capitalistico? Niente, neanche parola! La volontà di riformare il capitalismo, gestirne le strutture politiche invece traspare dall’inizio alla fine ed è questa la vera strategia di Podemos.

Non è quindi da questa esperienza politica che possiamo trarre le linee di sviluppo per un pensiero e una pratica rivoluzionaria in Europa.

Allora torniamo a rivolgerci alla nostra amata Grecia.

Ci aspettavamo molto di più dalla classe politica espressa dalla volontà popolare per operare la rottura con le logiche del capitalismo europeo, misure che hanno stremato e umiliato il popolo greco.

Avevamo già detto di non condividere la scelta del parlamentarismo che consideravamo come un vicolo cieco, ma esprimemmo comunque la nostra solidarietà e il nostro rispetto per chi, comunque, con margini di manovra risicati e in situazione di subalternità, viste le forze in campo, cercava di contrapporsi alla troika.

Ora, a posteriori, visti gli esiti devastanti della lunga trattativa che ha contrapposto il governo greco e la nuova troika, e che si è risolta con una vittoria totale di quest’ultima (Il governo greco ha capitolato su tutti i punti, in cambio di un prestito di ottantacinque miliardi che andranno in gran parte alle banche greche) possiamo cercare di capire qual era la vera strategia di Syriza, o almeno della sua parte dirigente, che sembra in preda di un attacco di dissonanza cognitiva collettiva, costretta com’è a giustificare una politica economica che dice di non condividere.

Anche qui, per maggiore chiarezza lasciamo la parola all’attore forse più controverso della mediazione tra la Grecia e i suoi creditori, ossia: Yanis Farufakis, che su “le Monde Diplomatique” di agosto, in una lunga intervista rilasciata al mensile francese – dopo le sue dimissioni dalla carica di ministro in disaccordo con la linea di resa accettata dal primo ministro – ci spiega quali fossero i termini concreti dello scontro: ” In realtà loro [loro sono l’eurogruppo, la BCE, il FMI] non avevano che un solo obiettivo: umiliarci, forzarci a capitolare, anche se questo significava l’impossibilità definitiva per le nazioni che detengono il nostro debito pubblico di recuperare i loro crediti e lo scacco del programma di riforme che noi soli [la coalizione Syriza] potevamo convincere i greci ad accettare.” Abbiamo capito bene il significato della frase?

Il senso per noi è molto chiaro, comunque prima di esprimere giudizi affrettati, continuiamo la lettura. Infatti più in là, Varufakis continua :”A fine giugno abbiamo abdicato e accettato la maggior parte delle esigenze della troyka. Con un’eccezione: noi insistevamo per ottenere una leggera ristrutturazione del debito, senza sconti, per mezzo di uno scambio di titoli” … e più avanti: “noi abbiamo ceduto su nove decimi delle esigenze dei nostri interlocutori e ci aspettavamo da loro uno sforzo affinché potessimo ottenere un accordo onorabile.

Un accordo onorabile? Varufakis scherza, solo che lo fa sulla pelle dei proletari greci, ma diventa addirittura patetico quando, di fronte all’arroganza di un’ennesima dichiarazione dell’eurogruppo, preso dallo sconforto, pensa: “Queste parole hanno risuonato alle mie orecchie come l’epitaffio dell’Europa di Konrad Adenauer, Charles de Gaulle, Willy Brandt, Valerie Giscard d’Estain, Helmut Schmidt, Helmut Koll, Francois Mitterrand.”

Era dunque questa l’Europa che sin dall’inizio Varoufakis e la classe dirigente di Syriza volevano costruire? Non l’Europa dei lavoratori, della giustizia sociale per gli sfruttati, ma l’Europa borghese dei personaggi da lui citati, tra i quali spicca Helmut Schmidt famoso per la sua campagna di sterminio della RAF e la repressione feroce di tutta la sinistra di classe nella Germania degli anni settanta. E cosa l’ha impressionato in Giscard, il fatto che fosse uomo corrotto a suon di diamanti? E in Mitterrand, forse il fatto che abbia spedito i servizi ad affondare la goletta di Green Peace che si opponeva agli esperimenti nucleari? Sugli altri non sprechiamo parole, è un problema di conoscenza della storia; Varufakis è certo uomo colto, questo vuol dire che la sua scelta di campo è chiaramente antiproletaria, il che ci permette di chiudere politicamente con lui e molto probabilmente con Syriza.

Rimane aperto il confronto con i compagni greci che nelle piazze hanno espresso chiaramente la loro opposizione a questa politica collaborazionista e che hanno tutta la nostra stima e solidarietà.

I tentativi di umanizzare il capitalismo da parte di Podemos, Syriza e dei molti imitatori della sinistra parlamentare europea, ci ricordano l’eurocomunismo di Berlinguer e Carrillo, patetico tentativo di un compromesso storico con la borghesia che invece li ha inglobati e metabolizzati, usandoli proprio come dice Varufakis: “perché solo loro potevano convincere [i proletari] ad accettare le riforme [borghesi].”

Contro quella politica, il movimento antagonista degli anni settanta aprì un ciclo di lotte di resistenza che nelle fabbriche, le scuole, i quartieri, le piazze, le prigioni unì larghi strati di proletariato in momenti organizzativi di altissima conflittualità, mettendo spesso in crisi il fronte borghese e la decadente democrazia (cristiana o socialdemocratica).

Da quel ciclo di lotte sono passati quaranta e più anni e la borghesia si è dimostrata capace di superare gravi crisi cicliche con l’espansione su scala planetaria del modo di produzione capitalista, inglobando, come abbiamo visto più sopra, ciò che restava del cosiddetto “socialismo reale.”

Una borghesia vincente quindi! Molti si sono arresi a questa evidenza considerandola come

ultima e definitiva.

Invece noi condividiamo ciò che dice Alain Badiou** che analizzando criticamente il maggio sessantotto e pensando al presente scrive: ” Quel che è assolutamente decisivo è mantenere l’ipotesi storica della possibilità di un mondo liberato dalle leggi del profitto e dell’interesse privato. Fintanto che nell’ordine della rappresentazione intellettuale, si rimane convinti che non sia possibile farla finita con tutto questo e che questa sia la legge del mondo, non è possibile nessuna politica di emancipazione.

Quella che Badiou chiama “ipotesi comunista” è una battaglia che si porta avanti sul terreno delle idee, una rivoluzione culturale che sia capace di rimettere la classe, il proletariato internazionale al centro di una campagna di riflessione dell’identità e della consapevolezza della propria condizione dentro un mondo globalizzato.

Le vecchie forme organizzative del proletariato, pensate per la classe operaia centrale sono da qualche tempo caduche, e forse non averlo capito prima ha contribuito alla sconfitta proletaria più della potenza del capitale stesso.

Pensare una terza via al comunismo significa andare oltre la consapevolezza che “un altro mondo è possibile”, significa tenere aperta questa possibilità nella polemica politica con i tentativi di rendere compatibile l’antagonismo sociale con i modelli dominanti; politica rappresentata oggi in Europa dai movimenti neo-riformisti come Podemos e Syriza.

Significa chiudere allo stesso tempo in maniera chiara e definitiva con le vestigia di un’idea arcaica e immobile del comunismo per pensarlo come atto costitutivo dei movimenti politici antagonisti al capitalismo che con le loro lotte tengono aperta questa possibilità, questa necessità .

 


* Movimento centrista nazionalista, recentemente salito agli onori perché i sondaggi lo danno al 18,5% delle intenzioni di voto.

** “L’ipotesi comunista“, Cronopio, 2011. Alain Badiou, filosofo, drammaturgo e scrittore francese nato nel 1937, pensatore marxista e politicamente attivo da decenni, è ora direttore dell’istituto di filosofia dell’École Normale di Parigi.