Tutti i maledetti giorni in Palestina

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Nelle ultime settimane le cronache addomesticate, prone e sempre più filo-sioniste non hanno potuto nascondere le esecuzioni a freddo, gli arresti a decine, i morti – adolescenti, ragazzi e neonati compresi – in quel fazzoletto di terra occupata illegalmente, illegittimamente, illecitamente da oltre 60 anni che si chiama Palestina.

E tutti i sepolcri imbiancati, scandalizzati davanti alla morte di Alì, il bimbo palestinese di 18 mesi, bruciato vivo, carbonizzato nel rogo della sua casa per mano di coloni israeliani, per qualche tempo si sentiranno ancora legittimati a commentare e a condannare, a condizione che si continui a dire che, fondamentalmente, si tratta di qualche “estremista fuori controllo”, evitando con attenzione qualsiasi analisi che si spinga oltre e prenda in considerazione il contesto in cui questi atti nascono e prosperano. Come se l’orrore di questi giorni sia un’eccezione e non invece una costante nella vita dei Palestinesi di Gaza e di Cisgiordania.

Non si tratta di sciorinare numeri, ma a volte servono anche questi per contestualizzare.

Solo durante la famigerata operazione di guerra condotta l’anno scorso dall’esercito sionista contro la popolazione di Gaza denominata non sappiamo se ironicamente “margine protettivo” (de che?) di bambini ne sono stati uccisi circa 500, perché, a detta di israele, stavano in scuole o ospedali dove Hamas avrebbe potuto nascondere armi.

50 giorni di guerra aperta, 50 giorni e circa 2000 vittime civili, compresi i 500 bambini di cui sopra.

Anche quella violenza estemporanea, reazione ad attacchi o più semplicemente dimostrazione di potenza e di superiorità militare per ristabilire gli equilibri nei rapporti tra le forze in campo?

Solo per restare ai fatti dell’ultimo periodo, da mesi quotidianamente vengono arrestati ragazzi, giovani pericolosissimi Davide tiratori di pietre contro un Golia sempre più brutale ed assassino. E qui i commenti delle nostre anime belle si fanno un po’ più annacquati, sussurrati quasi a non voler disturbare il lavoro del fiero esercito dello stato di israele, unico paese democratico dell’area e blablabla…

Gli adolescenti morti in questi ultimi dieci giorni, invece, quasi uno al giorno, sono colpevoli semplicemente di lanciare pietre o di passare di lì per caso o di essere soltanto palestinesi che ancora respirano.

Non c’è neanche la formalizzazione di un attacco in funzione di arginamento di alcunché. Ogni manifestazione viene affrontata con pallottole di gomma e vere sparate ad altezza d’uomo e non per aria, vengono utilizzate le cosiddette granate stordenti e i gas lacrimogeni ad ogni assembramento nei check point o nelle strade, senza preavvisi o neanche inconsistenti giustificazioni. Lo scontro è talmente intenso che viene aggredito, picchiato ed arrestato anche chi passa a fianco dei gruppi dell’esercito e osa guardare i soldati anziché camminare a testa bassa. Il delirio di onnipotenza di esercito, governo e coloni sionisti sembrerebbe a uno sguardo distratto totalmente fuori controllo, ma in realtà è tutto molto sotto controllo e ben pianificato.

Lo accennavamo prima: a poche ore dall’uccisione del piccolo Alì e di suo padre, due giovani diciassettenni Mohammad Al-Masri  a Gaza e Laith al-Kaldhi del campo profughi di Jalazon, venivano uccisi con una pallottola in pieno petto … In un ospedale di Gaza, Yousef Mansour, un bambino che mentre giocava per strada veniva colpito dalle guardie di israele – che gli hanno maciullato una gamba – in ospedale ha dichiarato: “da grande voglio fare il dentista ma ora il mio grande sogno è di poter camminare per tornare a scuola”, un sogno che probabilmente rimarrà tale … Amer Bajawi di 14 anni è stato arrestato a luglio, mentre con un suo amico guardavano con “fare sospetto” una pattuglia di sgherri israeliani, successivamente ha confessato di aver lanciato un sasso verso i soldati, ora è rinchiuso in prigione e rischia 10 anni di carcere … Avantieri è stato ucciso con 5 proiettili un 16enne a Nablus, ieri un altro ragazzo di 22 anni a Jenin … Negli ultimi tre giorni sono stati sequestrati – arrestati – due bambini di dodici anni …

Il caldo soffocante è arrivato anche in Palestina e gli occupanti hanno approfittato delle alte temperature per appiccare diversi incendi, distruggendo olivi secolari; pascolo per diverse centinaia di ettari; la tenda – fortunatamente vuota – di una famiglia beduina…

Sempre in questi giorni, un giovane shebab, uno sui tanti di ogni giorno, Maher al Hashlamoun, è stato condannato a 200 anni di prigione, perché resistente all’occupante sionista e quasi lo stesso giorno il fascista che ha ucciso il piccolo Alì e suo padre, è stato condannato a sei mesi di carcere.

Maher, mentre veniva condannato a duecento anni di prigione, si è messo a ridere e ha detto: “… perché, siete ancora convinti che occuperete la mia terra ancora per 200 anni?…”

È difficile tenere il passo della cronologia della barbarie in Palestina, della quotidianità assurda e sanguinaria ma che non ci sorprende perché fa parte della logica di tutte le guerre di occupazione, eppure è doveroso almeno provarci, fosse solo per rendere omaggio a chi resiste, e per riportare su un piano di realtà la brutalità quotidiana dell’occupazione, per conoscerne la natura e per condividere la rabbia contro gli aguzzini.

Sì, perché di tutto questo si tratta, di barbarie, di ferocia, di brutalità, di occupazione militare e di logica di annientamento di un popolo intero, di pulizia etnica. Se la stessa prassi fosse usata altrove, i governi democratici e i loro apparati politico-militari, così come i grandi opinionisti dei più diffusi mezzi di comunicazione di massa non starebbero in silenzio un solo minuto, urlando contro le azioni dittatoriali e fasciste di uno stato canaglia da radiare dal consesso civile! In questo caso, invece, ogni voce che si alzi contro la violenza sionista viene immediatamente fatta tacere grazie all’uso di alcune paroline magiche, che francamente sono più tossiche dell’antrace: essere contro israele è sinonimo di antisemitismo; parlare del diritto al ritorno dei Palestinesi della diaspora, o rivendicare il loro diritto a stare nelle proprie case (per non parlare del diritto di riavere indietro tutta la loro terra) significa non voler riconoscere la tragedia dell’olocausto  e di nuovo blablabla…

Le parole vengono svuotate di senso, decontestualizzate e distorte. E allora, forse dovremmo ricominciare a chiamare le cose con il proprio nome, senza infingimenti o compiaciuti eufemismi.

Abbiamo letto, al riguardo, un’interessante recensione a cura di Andrea Colasuonno dell’ultimo libro di Noam Chomsky e Ilan Pappé “Palestina e Israele: che fare?, pubblicata sul sito NENA NEWS  http://nena-news.it/il-nuovo-vocabolario-della-questione-palestinese/#sthash.1CPKc4Bn.dpuf in cui, tra le altre cose, i due studiosi discutono proprio di come molti dei nodi della questione palestinese siano da rivedere, anche dal punto di vista semantico.

Perché anche le parole non sono mai casuali o neutre, ma hanno significati ben precisi, appunto.

Sempre che li si voglia cogliere, naturalmente.