Olivier Clerc, studioso svizzero francese, nel 2005 ha elaborato una curiosa metafora[1]. Sostanzialmente la storiella dice questo: se immergiamo una rana in una pentola piena d’acqua fredda e accendiamo il gas, la rana nuota senza alcun disagio nell’acqua fino al momento in cui questa, progressivamente sempre più calda, non diviene bollente e la rana, ormai stordita dal calore a cui si era gradualmente abituata, muore bollita. Se la ranocchia venisse invece gettata nell’acqua già calda, con un salto balzerebbe fuori dalla pentola, vanificando così l’effetto “stordimento con esito fatale”!
La progressiva perdita di capacità di saltare fuori da quell’acqua sempre più calda e alla fine letale, può essere applicata a diversi ambiti della vita, dalle relazioni interpersonali ai rapporti sociali, lavorativi, alla politica.
Per anni ci hanno bombardato con messaggi che avrebbero voluto convincerci che siamo diventati tutti (o quasi) rane dentro un enorme pentolone di acqua che diventava sempre più calda, impedendoci qualsiasi capacità reattiva fino a bollirci.
È quel “o quasi” a fare la differenza, perché insieme alle molte autentiche rane che affollano questa parte della terra, dove il processo di pacificazione scagliato contro il movimento – o i movimenti – ha segnato momenti di crisi reale all’interno delle molteplici espressioni dell’antagonismo sociale (o anche solo delle diverse aree di dissenso che si generano ciclicamente), nell’arco di questi anni è cresciuta e si è estesa qualche zona popolata da rospi, sinceri e combattivi, che per scelta o per natura disdegnano l’acqua calda, e non hanno alcuna intenzione di finire in pentola.
Con l’omicidio di Carlo Giuliani e la sanguinaria repressione statale a Genova, nel “lontano” 2001, hanno provato a decretare la fine dei cosiddetti movimenti anti-globalizzazione di tutta la sinistra “alternativa”, anche se quest’ultima, nella sua frenetica corsa governativa e istituzionale poi, ha trascinato nella sua rovinosa “caduta”, molti sognatori di un mondo “arcobaleno”. E’ passato un decennio prima di vivere qualcosa di nuovo e di concreto nelle piazze, ossia nelle giornate del 14 dicembre 2010 e del 15 ottobre 2011.
Sono stati spesi fiumi di parole e analisi per parlare di queste giornate di rottura conflittuale e generazionale, si sono scatenate canee di analisti e pseudo analisti politici che in nome del “il dissenso sì, ma dentro lo steccato della democratica e pacifica manifestazione di opinioni” hanno cercato per l’ennesima volta di isolare, delegittimare e depoliticizzare quei contesti sociali “reattivi”.
Sull’onda lunga di quelle due “giornate” e degli sforzi, costanti, di riprendere in mano i diversi fili spezzati di molte situazioni di critica radicale nei confronti della realtà, però, sono nati dei nuovi contesti che ad ogni atto di forzatura istituzionale, si ripresentano rafforzati rispetto al momento precedente, come è avvenuto, ad esempio, con lo sciopero sociale del 14 novembre.
Sta nascendo qualcosa di nuovo, in Italia, sta prendendo forma una mobilitazione sociale nuova, a partire dalla connessione tra precari e lavoratori dipendenti, disoccupati, sindacati di base e nuovi soggetti di un nuovo sindacalismo, movimenti sulla casa, studenti, giovani e meno giovani. Un tessuto sociale fatto a pezzi da decenni di politiche di precarizzazione selvaggia, impoverimento e frammentazione funzionale al mantenimento della temperatura dell’acqua della famosa pentola sempre vicina al punto di cottura.
Nel comunicato finale dello Strike Meeting del 14 settembre scorso ci sono alcuni punti che possono essere presi come base per il futuro:
È evidente a tutte e tutti ‒ e l’avvio della tre giorni con la tavola rotonda animata dagli attivisti europei non è stato casuale ‒ che l’Europa è il terreno minimo dello scontro, la scala transnazionale decisiva per affermare conflitti capaci di incidere. Ed è evidente che senza la costruzione di uno spazio di relazione permanente e innovativo tra le lotte e i movimenti è inimmaginabile rompere l’impasse e sovvertire il presente. Lo sciopero sociale, generale e generalizzato, precario e metropolitano vuole essere un primo approdo, indubbiamente parziale ma fondamentale, di questa sperimentazione. Un modo per cominciare a rovesciare la narrazione tossica che sostituisce il merito all’uguaglianza, la competizione selvaggia alla felicità comune.
La piattaforma dello sciopero non può che comporre le istanze che segnano il mondo del lavoro e della formazione, del non lavoro e della cooperazione sociale. Rifiutare e respingere il Jobs Act e la riforma renziana della scuola, oltre alla nuova stagione di privatizzazione e mercificazione dei beni comuni, in generale la trasformazione neoliberale del mercato del lavoro e la rinazionalizzazione della cittadinanza, significa infatti battersi per un nuovo welfare, per il diritto all’abitare, per il reddito europeo sganciato dalla prestazione lavorativa, per il salario minimo europeo, per l’accesso gratuito all’istruzione, e lottare contro i dispositivi di selezione e di controllo che, attraverso le retoriche meritocratiche, aprono le porte delle scuole e delle università ai privati e fanno del sapere strumento docile degli interessi d’impresa. Non c’è solo la disoccupazione a colpire giovani e meno giovani, non è solo la sottoccupazione a trafiggere milioni di donne e di uomini. Si tratta del nuovo mantra dell’occupabilità che spinge ad accettare il lavoro purché sia, quello senza diritti e, addirittura, gratuito (vedi il modello Expo). Rivendicare reddito garantito e salario minimo europeo deve quindi procedere di pari passo con la pretesa della libertà e della democrazia sindacale, del diritto di coalizione e di sciopero, dentro e fuori i posti di lavoro. Ancora: senza la difesa dei beni comuni e la riappropriazione democratica del welfare è impensabile un processo di conflitto espansivo che sappia mettere all’angolo la gestione neoliberale della crisi.
Una piattaforma comune per uno sciopero sociale che sappia combinare le diverse forme di lotta e di sciopero sperimentate e progettarne di nuove, potenzialmente capaci di estendersi su scala europea: lo sciopero generale del lavoro dipendente, lo sciopero precario e metropolitano, lo sciopero di chi non ha diritto di sciopero, il netstrike, lo sciopero nei luoghi della formazione, lo sciopero di genere. Un caleidoscopio di pratiche da costruire pazientemente attraverso dei veri e propri laboratori territoriali dello sciopero.
La presa di parola di una rabbia “indisciplinata” si trascina ormai da quelle “giornate”, come un nuovo soggetto, difficile da qualificare e quantificare; l’odio verso le istituzioni, che scagliano la loro “crisi” sulle fasce meno tutelate dall’apparato sistema, sta facendo esprimere sempre più capillarmente su tutto il territorio e su tutte le “vertenze”, questa forza nata da questo pessimo quotidiano che stiamo vivendo. Rabbia incontenibile, gioiosa e nichilista. Come un fiume in piena, trascina la noiosa dicotomia violenza o non violenza e l’accatasta ai suoi margini, rendendola spettatrice inerme e insufficiente. La differenza tra questo nuovo diritto all’odio e le lotte vertenziali e territoriali, sta nel fatto che questo nasce dalle viscere sociali, soprattutto delle grandi città, dove la povertà e la miseria intaccano maggiormente l’esistenza, e fanno da detonante ad una esplosione senza contenimento alcuno, senza bandiere da issare e far sventolare nelle barricate, e dove non esiste nessun “ordine del giorno” prescritto, ma solo la realtà di una quotidianità da sconvolgere, almeno per un giorno. Negli ultimi “contatti”, però, fra questa nuova entità e i problemi sociali ormai dilaganti su tutto il territorio, si sta assistendo ad una sorta di nuova consapevolezza e di una maggior partecipazione ad un ottica organizzativa; le occupazioni delle case, i picchetti nelle fabbriche, le azioni antifasciste e antirazziste, azioni dirette e sempre più determinate, fanno presagire un futuro, non certo da “assalto al cielo”, ma comunque da nuovi attori disposti a scompaginare il copione infame di un sistema odioso, che della lotta di classe padronale, ormai, ne ha fatto la sua bandiera istituzionale. Soggettività rivoltose, che non si accontentano di tirare le somme ai numeri della crisi, come una semplice conta aritmetica, che la bolgia capitalista incunea nella vita, ormai, di milioni di proletari e che non accettano più mediazioni alcune; non si accontentano più di trasformare la lotta estrema del vivere in vertenze al ribasso e affrontano la sempre più agguerrita repressione con forza e determinazione, come non si vedeva, ormai, da decenni. Giovani ma anche meno giovani, studenti, operai o cassaintegrati, insieme ai migranti, i nuovi schiavi da catena, affrontano la paura che per anni ha ingabbiato le loro coscienze nelle maglie del pacifismo vertenziale, della delega ad occhi chiusi, che come una benda negli occhi, ne ha oscurato il loro quotidiano di miseria, sopruso ed esclusione sociale.
Lo sviluppo delle lotte dopo il 14 novembre ha coinvolto decine di migliaia di nuovi soggetti. Lo abbiamo visto in numerosi momenti, a dicembre a Roma, nel corteo organizzato da sindacati di base, precari e studenti contro il Jobs act o a marzo a Francoforte, nella manifestazione contro la BCE; successivamente di nuovo in diversi paesi europei e in Italia, con la giornata del 1° maggio NO EXPO a Milano o, per finire, qui in Sardegna, durante la manifestazione “fermiamo la STAREX”. Su tutto prevale la volontà del riprendere la parola, l’agire, la visibilità politica. Del riprendersi la piazza, avremmo detto un tempo…
La maggior incidenza di questa nuova consapevolezza, come dicevamo, si manifesta maggiormente a livello metropolitano, cioè dove le contraddizioni del giogo capitalista sono più evidenti e sta iniziando a prendere forme sempre più organizzate e coerenti, creando i presupposti per una opposizione su larga scala.
Lo scontro dentro “le piazze” della crisi assume una valenza di rottura su tutti i fronti, mettendo in discussione i pilastri dell’imposizione neoliberista e neocapitalista; il diritto ad una casa, ad una scuola non classista, un lavoro fuori dalle maglie del nuovo schiavismo, il reddito dignitoso per tutti, la lotta alla repressione, scardinamento della concezione partitica istituzionale del vivere i beni comuni. Insomma messa in processo della logica capitalista, sempre più assillante e devastante, e soprattutto sempre più capillare, dove non esistono territori esclusivi o particolarmente intaccati o diversamente colpiti. Ma soprattutto messa in cantiere di nuove costruzioni dal basso, fatte di piccoli salti e piccole, ma estremamente significative, rotture delle gabbie della compatibilità costruita su decenni di torpore quasi mortale.
Che sia un altro, nuovo inizio?
[1] “Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventa. L’acqua adesso è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce -semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50° avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone. Questa esperienza mostra che – quando un cambiamento si effettua in maniera sufficientemente lenta – sfugge alla coscienza e non suscita – per la maggior parte del tempo – nessuna reazione, nessuna opposizione, nessuna rivolta. Se guardiamo ciò che succede nella nostra società da alcuni decenni, ci accorgiamo che stiamo subiamo una lenta deriva alla quale ci abituiamo. Un sacco di cose, che ci avrebbero fatto orrore venti, trenta o quarant’anni fa, a poco a poco sono diventate banali, edulcorate e – oggi – ci disturbano solo leggermente o lasciano decisamente indifferenti la gran parte delle persone. In nome del progresso e della scienza, i peggiori attentati alle libertà individuali, alla dignità della persona, all’integrità della natura, alla bellezza ed alla felicità di vivere, si effettuano lentamente ed inesorabilmente con la complicità costante delle vittime, ignoranti o sprovvedute. I foschi presagi annunciati per il futuro, anziché suscitare delle reazioni e delle misure preventive, non fanno altro che preparare psicologicamente il popolo ad accettare le condizioni di vita decadenti, perfino drammatiche. Il permanente ingozzamento di informazioni da parte dei media satura i cervelli che non riescono più a discernere, a pensare con la loro testa. Allora se non siete come la rana, già mezzo bolliti, date il colpo di zampa salutare, prima che sia troppo tardi!” Oliver Clerc
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