Tra i “regali” di Natale del governo Renzi, spiccano i primi due decreti attuativi del Jobs Act ‒ quello relativo al contratto a tutele crescenti e all‟eliminazione dell‟articolo 18, quello relativo al NASpI ‒ e la riforma del regime dei minimi per partite Iva e freelance. La furia riformatrice ha confermato quanto denunciammo già nel mese di settembre, durante lo Strike Meeting: dietro la retorica dello “scambio”, tra vecchie e nuovi diritti, l‟intenzione di colpire tutti, nessuno escluso, lavoro stabile e precario, autonomo e subordinato, studenti e disoccupati.
Nell‟anno appena trascorso, almeno in Italia, l‟offensiva neoliberale sul lavoro e le sue regole ha raggiunto una violenza e un‟intensità senza precedenti. E già il 2015 si apre con l‟attacco al pubblico impiego. Flessibilità in uscita e «occupabilità»: è questa la “coppia” consacrata dai decreti attutivi approvati il 24 dicembre (!), che si accompagna alla liberalizzazione della precarietà senza causale, alla dequalificazione del contratto di apprendistato, all‟accanimento fiscale contro le partite Iva che svolgono lavoro intellettuale/comunicativo, alle poche briciole, come da programma, per l‟estensione universale degli ammortizzatori sociali (a discapito, tra l‟altro, del finanziamento dei contratti di solidarietà). Con la piena flessibilità in uscita del pubblico impiego, il cerchio si chiude e l‟Italia entra in una nuova epoca.
Sarebbe miope e sbagliato non cogliere il carattere quanto meno europeo del processo riformistico che ha investito l‟Italia negli ultimi mesi. È evidente che la «svalutazione interna» (ovvero salariale) ha colpito prevalentemente i PIIGS, è altrettanto vero che il mercato del lavoro europeo tende a omogeneizzarsi, almeno per una generazione. Minijobs (leggi sotto-occupazione), politiche attive e apprendimento duale, da questo punto di vista, sono esempi emblematici e nuova regola. Qualora gli investimenti produttivi, spinti da un ancora incerto Quantitative easing della BCE, dovessero ripartire, lo farebbero all‟interno di uno scenario – dei rapporti tra capitale e lavoro, dei diritti, delle condizioni salariali, ecc. ‒ radicalmente mutato: come dire, la crisi ha fatto bene il suo mestiere. Non stupisce che in Italia anche le previsioni economiche più ottimistiche parlino, per il 2015, di
una jobless recovery: dovrebbe fermarsi – ripetiamo, dovrebbe – la recessione senza che la disoccupazione diminuisca, anzi.
Nel pieno dell‟offensiva renziana, durante e dopo l‟approvazione del DL Poletti, ha preso avvio il processo dello Strike Meeting. Sui caratteri innovativi del processo abbiamo già insistito in questi mesi, sarebbe ridondante tornarci. Vale la pena, però, insistere sul successo dello Sciopero sociale del 14 novembre. Non solo i numeri, che pure sono stati poderosi, ma anche l‟estensione spaziale (oltre 45 città coinvolte) e temporale (24 ore); soprattutto, il protagonismo di una coalizione sociale ampia, fatta di precari, studenti, disoccupati, sindacati conflittuali, comitati in difesa dei beni comuni e molto altro. Coalizione che, nel superamento della tradizionale forma dello sciopero, è stata in grado di innovarne le pratiche, esibendo l‟estensione dello sfruttamento oltre il luogo di lavoro, dalla formazione alla riproduzione, dalle forme di vita alle relazioni sociali. Nulla più di un inizio, indubbiamente, ma un inizio che ha lasciato il segno.
Lo ha già ribadito l‟affollata assemblea nazionale dei Laboratori dello Sciopero sociale, che si è svolta a Napoli lo scorso 30 novembre: il successo del #14N impone una ricerca politica, organizzativa, linguistica per molti versi inedita. Ben avviata nell‟autunno, ma ancora tutta da svolgere. È evidente, infatti, che il percorso espansivo e indipendente contro le politiche di precarizzazione ‒ che si articolano non solo con il Jobs Act e la regolazione neoliberale del mercato del lavoro, ma anche con la messa a valore della vita tutta ‒ e quel processo di sindacalizzazione diffusa cui si è fatto riferimento negli scorsi mesi, anche e soprattutto dal punto di vista della sperimentazione pratica, devono essere approfonditi e sviluppati. Altrettanto vero che l‟estensione europea dello sciopero, solo evocata con le azioni di Parigi e Berlino, deve essere ancora del tutto conquistata. Della questione, tra l‟altro, si è discusso in modo produttivo tanto a Francoforte, durante il Blockupy Festival (21/22/23 novembre), che a metà dicembre a Lisbona, nel Forum sulla precarietà e la disoccupazione organizzato da Precários Inflexíveis.
Rilanciamo e articoliamo dunque, in sintonia con la discussione napoletana, il II atto dello Strike Meeting, che proponiamo per il 13/14/15 febbraio, e da tenersi a Roma. Sarà una grande occasione di ricerca comune attorno a 3 assi principali:
Primo asse ‒ Il processo dello Sciopero sociale: le forme dell’azione e la sindacalizzazione diffusa;
Secondo asse ‒ Campagne e vertenze comuni;
Terzo asse ‒ Estensione europea del Social Strike.
Al primo asse vorremmo dedicare la plenaria iniziale, affinché il tema, tanto delicato quanto decisivo, possa essere affrontato e discusso da tutt* e con un tempo ampio.
Il secondo asse, seconda giornata, sarà articolato in workshop. Indichiamo tra i temi: il salario minimo europeo in alternativa a sotto-occupazione e freejob (verso il Primo maggio milanese: contro i meccanismi di sfruttamento sperimentati da Expo2015, si gioca una partita fondamentale nell‟articolazione di pratiche di lotta che guardano a forme di Sciopero sociale e di nuova sindacalizzazione); reddito di base e welfare contro il business della disoccupazione giovanile (per riprendere la campagna “Garantiamoci il futuro”); l‟universo della formazione, dal conflitto sulla “Buona scuola” all‟organizzazione del precariato della ricerca; beni comuni e contrasto allo Sblocca Italia; quale resistenza per i freelance, vessati da gestione separata dell‟INPS e riforma del regime
dei minimi; “un giorno senza di noi”, come costruire lo sciopero del lavoro migrante e, nello stesso tempo, opporsi radicalmente al business dell‟accoglienza; produzione e messa al lavoro dei generi, come riprendere e dare consistenza alle tematiche sollevate dal Gender Strike. Questo asse, chiaramente, può essere arricchito dalle proposte di tutt* coloro che vogliono organizzare workshop su ulteriori vertenze/campagne comuni.
Il terzo asse sarà invece dedicato all‟Europa, al confronto diretto tra reti, gruppi, soggetti sindacali che vogliono provare a costruire il processo continentale del Social Strike. Anche in questo caso, così come nella prima giornata, si tratterà di una plenaria, e si svolgerà rigorosamente in lingua inglese.
Con il 14 novembre una nuova coalizione sociale ha cominciato a occupare la scena, mettendo in campo pratiche di lotta e forme di relazione che hanno fatto e possono fare la differenza. Un atto di resistenza importante, seppur parziale, contro i diktat della Troika, i poteri finanziari e le corporation globali. Ora si tratta di dare gambe a questa coalizione, di trasformarla in pratica organizzativa quotidiana, contro la precarietà, la disoccupazione, la distruzione di scuola e università pubbliche, la devastazione ambientale e le privatizzazioni. Ora si tratta di superare i confini nazionali e battersi contro le politiche neoliberali di Bruxelles e Francoforte.
Laboratori dello Sciopero sociale
Verso lo Strike Meeting#2 Le politiche del Jobs act e le alternative da sperimentare LOTTE DI CLASSE Wed, 11/02/2015 – 10:29 Di Big Bill Haywood La disarticolazione delle forme classiche del lavoro è stata possibile negli anni grazie ad una serie di cambiamenti strutturali della legislazione sul lavoro, di politiche europee e di misure che hanno profondamente cambiato le relazioni industriali e produttive, esaurito il sistema della concertazione tra politica e parti sociali e superato di fatto il ruolo della contrattazione collettiva nazionale verso quella aziendale (con la grossa responsabilità dei sindacati confederali, vedi Testo Unico sulla rappresentanza del 2014). Se il precariato è frutto della divisione del lavoro nel sistema di produzione globale, dei cambiamenti produttivi e della concorrenza internazionale, i dispositivi di comando e controllo della precarietà sono una serie di leggi, di interventi economici, di direttive europee, di raccomandazioni della commissione europea, di leggi regionali e di termini statistici che possiamo sintetizzare in politiche del lavoro. Per contrastare tali politiche governative bisogna comprenderne l„essenza e seguirne la continua evoluzione che trova nel Jobs Act solo la sua ultima versione. Il Governo Renzi infatti con il tentativo di annichilire i sindacati confederali, vuole in realtà superare il sistema delle relazioni industriali fino ad oggi conosciuto, in senso autoritario. Superare la mediazione sociale con un rapporto diretto leader-cittadino, Governo-lavoratore, Padrone-operaio, Azienda-precario è l‘obiettivo dell‘attuale direzione del PD, di Confindustria e della Troika. L„idea alla base è il superamento delle forme del lavoro organizzato
oggettivamente non più riformabili, verso un neo-autoritarsimo che pone il lavoratore isolato davanti al datore o al capo ufficio. La cancellazione dell„articolo 18 rappresenta proprio questo cambio. Dare lo shock per passare definitivamente dal paradigma concertativo fino ad oggi conosciuto ad uno nuovo dove, tra un tweet ed una apparizione televisiva, si costruisce un rinnovato ordine del consenso leader/massa senza mediazioni possibili. Niente di nuovo per il nostro Paese, lo abbiamo visto anche con Berlusconi, solo che all„epoca le posizioni erano più chiare, più nitide e qualcuno reagiva. Oggi la narrazione tossica di Renzi appanna la vista degli sfruttati e dei subalterni con una coltre di fumo zeppa di retorica che spetta a noi disperdere. Cancellare l‟art. 18, oltre a mettere a rischio milioni di lavoratori, segna un nuovo orizzonte simbolico. Offre un segnale forte, ideologico agli imprenditori che si sentono finalmente rappresentati da chi li vuole liberare dall‟“oppressione” dello Stato, e dà un segnale altrettanto forte al mondo del lavoro, ossia che va distrutto tutto ciò che c’è tra il potere dell„impresa ed il lavoratore, a partire dal sindacato. Potremmo dilungarci su quanto sono stati inadeguati, corporativi e disonesti i sindacati (ed è il punto forte della retorica renziana ed il “peccato originale” dei sindacati confederali), ma l‘idea di fondo non è eliminare il sindacato X o Y, ma proprio lo spazio tra la decisione autoritaria del capo e l‘esecuzione dell‘ordine che nel tempo hanno ricoperto le organizzazioni dei lavoratori tramite il dissenso, il sostegno reciproco e la mutua solidarietà. Le politiche del lavoro in questo nuovo panorama svolgono il ruolo di sostituzione parziale delle funzioni sindacali ma con un obiettivo opposto a quello d‟origine. Se nel movimento sindacale nella sua versione migliore il mutuo aiuto, il cooperativismo e l„autorganizzazione servivano a sostenere il lavoratore dentro e fuori il luogo di lavoro in un„ottica di trasformazione sociale, in questa fase le politiche del lavoro offrono meccanismi di sostegno al reddito e di ricerca attiva di lavoro (tirocini, autoimprenditorialità, apprendistato) ma con la funzione di disciplinamento sociale, per controllare ed annientare il conflitto di classe. Ecco perché è oggi così importante ed urgente rompere questo schema ripartendo da nuovi legami solidali, da rinnovate forme di mutualismo avendo ben presente quali sono gli strumenti utilizzati dal Governo e dalle imprese. Lo stesso “slittamento” del sindacato dall„altro lato della barricata, con totali compromissioni con la gestione delle politiche del lavoro (dalla cassa integrazione in deroga ai licenziamenti collettivi, dagli enti di formazione ai fondi inter-professionali, per arrivare ai continui accordi a ribasso firmati nelle aziende e allo scempio del TU sulla rappresentanza del 2014) lascia uno spazio vuoto che nessuna delle organizzazioni tradizionali del lavoro riesce a riempire completamente (la stessa Fiom, se da un lato è parzialmente capace di canalizzare il dissenso operario, dall‟altro firma accordi a ribasso in molte aziende). Come riempire questo vuoto è la sperimentazione più difficile che abbiamo di fronte. Non abbiamo alcuna esaustiva “teoria del lavoro”, pensiamo piuttosto che si debba partire da piccole “scommesse”, investendo su alcune ipotesi a partire dalla propria condizione soggettiva. E’ fondamentale costruire e rafforzare vertenze “esemplari” capaci di mettere in discussione la nuova idea del lavoro. Contro la precarietà a tempo indeterminato prevista dal Jobs Act, è utile
partire dalla sentenza della corte di giustizia europea, chiedendo l‟assunzione a tempo indeterminato di tutti i precari della P.A.; così come contro i meccanismi di workfare e della condizionalità, va costruita una campagna contro l‟inefficacia del piano Garanzia Giovani. Abbiamo inoltre la necessità di dare “gambe” alle campagne su lavoro e non lavoro, dotandoci di strumenti organizzativi per andare oltre la mera propaganda e agire su un piano di lotta vero e proprio. Un esempio sono gli sportelli del lavoro e dei diritti, se diventano in grado di essere sia strumento di supporto tecnico (consulenza legale, del lavoro, fiscale, commerciale, formazione ecc.), che punti di accoglienza territoriale e supporto informativo nei confronti di chi è interessato a partecipare ad una campagna o lotta eventualmente già in campo, oppure a proporne di nuove. Inoltre, il progressivo smantellamento del sistema del welfare e la privatizzazione di alcuni importanti servizi pubblici, ha generato un impoverimento massiccio di alcuni settori sociali rendendo fondamentali le esperienze di Mutuo Soccorso. Queste diventano veramente interessanti se capaci di non subordinare il conflitto al servizio: non è importante andare a sostituire l’intervento assistenziale, ma costruire delle reti/circuiti che possano, anche attraverso la riproduzione stessa del servizio venuto meno o carente, riproporre la questione in modo conflittuale supportando chi difende quanto ancora rimane dello Stato sociale. Un’esperienza interessante da monitorare è quella di ‘Solidarity for all’ in Grecia, una rete di ambulatori sociali, sportelli diritti sul lavoro e dei migranti, mense popolari, spazi sociali e fabbriche recuperate sostenuta da Siryza. Gli attivisti, oltre ad offrire il servizio, hanno come primo obiettivo quello di coinvolgere direttamente gli “utenti” nell‟erogazione dei servizi o nell‟organizzazione delle attività. La maggior parte degli operatori, sono stati costretti per la crisi a rivolgersi a Solidarity for all per poi diventarne ferventi attivisti. Esempio italiano è la Ri-Maflow, fabbrica recuperata in provincia di Milano, che oltre a porsi come obiettivo la salvaguardia dei posti di lavoro, sta sperimentando nuove forme lavorative a sfruttamento zero, affronta il tema della riconversione e della produzione (anche in chiave ecologica) e dell’autorganizzazione del lavoro. Le stesse istanze sono rintracciabili nel progetto Netzanet-Solidaria che alcuni attivisti nella città di Bari portano avanti da diversi mesi: partendo da un‟esperienza conflittuale per il diritto alla casa, hanno lanciato le autoproduzioni di salsa nel contesto della campagna „sfrutta zero‟ mettendo al centro lo sfruttamento e il lavoro sottopagato, la rivendicazione dei diritti di soggiorno e lavoro per i migranti, praticando embrionali forme alternative di filiera produttiva e di distribuzione fuori mercato. Molte altre sperimentazioni sono necessarie per reagire alla crisi e costruire una alternativa dal basso. È urgente riconquistare quello spazio di resistenza che il neo-autoritarismo sta “occupando” a colpi di riforme e leggi finanziarie. Fonte: http://www.communianet.org/lotte-di-classe/verso-lo-strike-meeting2-le-politiche-del-jobs-act-e-le-alternative-da-sperimentare
Fonte: http://blog.scioperosociale.it/strike-meeting-ii-atto-roma-131415-febbraio/
Verso lo Strike Meeting#3 Femminilizzazione del lavoro ed emancipazione malata GENDER Thu, 12/02/2015 – 10:57 Di Degender Communia Una parte considerevole del nostro tempo di vita lo passiamo a lavoro. Grazie al lavoro, e al salario corrisposto, riusciamo – o dovremmo riuscire – a garantire la nostra sussistenza e a determinare la qualità della nostra vita: l’assenza di lavoro (disoccupazione) e lo scadimento della qualità del lavoro (precarietà) si riflettono direttamente sulle nostre vite, determinando il nostro presente e il nostro futuro. Il concetto di femminilizzazione del lavoro è stato introdotto per la prima volta a Pechino nel corso della Quarta Conferenza sulle Donne dell’ONU nel 1995. All’interno della relazione introduttiva all’incontro dal titolo “World Survery on the Role of Women in Development. Women in a Chainging Global Eonomy” si passarono in rassegna i vari cambiamenti che stava subendo il mercato del lavoro a livello globale, constatando che in tutte le aree del mondo l’occupazione femminile cresceva nei numeri. Rispetto alla situazione italiana i commenti erano addirittura trionfalistici: secondo il rapporto dell’ONU la crescita dell’occupazione femminile era accompagnata dall’esaltazione per l’avvento dell’economia dei servizi anche nel nostro paese. Un modello lavorativo che avrebbe
offerto «finalmente alle donne ruoli idonei alle loro competenze ed esperienze: la capacità di relazione e comunicazione, l’attenzione alla cura, la predilezione per modalità cooperative piuttosto che competitive» . Negli anni a seguire, anche grazie al contributo delle varie riforme attuate, l’occupazione femminile crebbe molto più velocemente di quella maschile e la giovane donna divenne il simbolo del cambiamento, del progresso. Nel corso degli anni la piena partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne è diventato un obiettivo comunitario a cui i governi europei dovevano adempiere: a marzo del 2000 c’è stata a Lisbona una riunione straordinaria dei Capi di Stato e di Governo dei paesi membri dell’Unione Europea, dove furono fissati gli obiettivi e le strategie di intervento da lì al 2010, volte a far crescere la competitività e la dinamica economica della conoscenza. La Strategia di Lisbona, questo fu il nome dato al processo intrapreso, mise a punto una serie di misure comuni in determinati ambiti quali innovazione e imprenditorialità, riforma del welfare e inclusione sociale, capitale umano e riqualificazione del lavoro, uguali opportunità per il lavoro femminile, liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei prodotti a sviluppo sostenibile. In merito a gli obiettivi tutti gli stati membri si impegnavano a far crescere, dal 2000 al 2010, l’occupazione generale in media dal 61% al 70% e quella femminile dal 51% al 60%. Alla luce delle modifiche del mercato del lavoro, introdotte in Italia negli ultimi vent’anni si può parlare di un completamento della definizione di femminilizzazione del mercato del lavoro, intesa non come maggiore presenza delle donne, quanto piuttosto come riduzione del lavoro nel suo complesso alle condizioni di precarietà e carenza di diritti che tradizionalmente ha caratterizzato quello femminile. Analizzare gli effetti della crisi sul mercato del lavoro vuol dire andare ad osservare come questa si è ripercossa sulle caratteristiche del mercato del lavoro contemporaneo, dove persistono forte differenze di genere e territoriali. Dai dati Istat scopriamo che a cinque anni dalla crisi economica si è ridotta l‟occupazione a tempo indeterminato – standard – del 7,7%, per la maggior parte son uomini e più della metà si trovano collocati al sud. Oltre il lavoro standard diminuisce anche il lavoro “atipico”, meno 6,4%, andando a colpire principalmente chi è in questi contratti: donne e giovani. L‟unica forma di lavoro che continua a crescere è il lavoro part-time: nel quinquennio della crisi +43,1% per gli uomini in confronto a +16,8% delle donne. Diminuisce la durata temporale dei contratti ma 1/5 degli atipici è in una situazione di precarietà da almeno 5 anni. La crisi economica ha ridisegnato il mercato del lavoro sviluppando forme di lavoro atipico e non stabilizzate, dove maggiore è la percentuale di donne. Infatti i dati sulla ripresa del mercato del lavoro mostrano come le nuove domande siano esclusivamente a tempo determinato: a fronte di un calo di 105 mila unità di personale a tempo indeterminato, pari allo 0,6%, sono aumentati di 63 mila i lavoratori involontariamente a tempo parziale, +2,3%; di 136 mila i contratti di collaborazione, 5,3%; i contratti a breve durata fino a 6 mesi, +8,8 %, a fronte di un calo di 32 mila unità di quelli superiori ad un
anno. Con la crisi la forza lavoro diventa sempre più precaria e sottoutilizzata rispetto alle proprie capacità, si femminilizza. La tenuta dell’occupazione femminile la dobbiamo alla crescita delle occupate straniere, alla crescita delle occupate over 50 per effetto dell’allungamento dell’età pensionabile e alle donne che entrano nel mercato del lavoro per sopperire alla disoccupazione del partner. L’occupazione femminile si attestava di 12,1 punti percentuali al di sotto della media europea, posizionando il paese in fondo alla classifica comunitaria, con solo Malta e l’Ungheria dietro. Nella ricerca della cause di questo divario, la disomogeneità economica interna influenza molto il contesto nostrano: si può osservare che dove l’economia è forte cresce la richiesta di manodopera, riuscendo così ad assorbire anche quella femminile, mentre in un mercato del lavoro debole, come nel meridione, a stento si riesce a soddisfare la richiesta di lavoro degli uomini . Le giovani donne sono le più colpite dalla situazione vigente in quanto, oltre a subire più dei loro coetanei la disoccupazione e la mancanza di servizi per il sostegno al reddito, vivono una frustrazione frutto della discrepanza tra le loro ambizioni generazionali, date dal cambiamento della coscienza femminile, e la dura realtà con cui sono costrette a scontrarsi . L’enfatizzare il rapporto tra aspirazioni di vita, condizioni materiali e le conseguenti frustrazioni che generano nelle donne, in particolare giovani, potrebbe sembrare un problema secondario rispetto allo stato di crisi in cui versa l’Italia, è invece esemplificativo di come i cambiamenti del mercato del lavoro degli ultimi trent’anni e le politiche emancipatrici portate avanti fino ad oggi, non abbiano realmente risolto i problemi di genere. Quella a cui stiamo assistendo oggi è un fenomeno di emancipazione malata che crea talvolta tra gli uomini e tra le donne stesse una nostalgia del modello astratto e apre la strada a logiche regressive. Viviamo in una condizione sociale per cui le lotte e i processi politici e sociali messi in campo dai movimenti hanno prodotto uno stato di avanzamento dell’emancipazione femminile non conforme con gli obiettivi sperati. Le donne, nonostante il cambiamento di immagine, hanno continuato ad essere parte dell’esercito di riserva del mercato del lavoro e la svalutazione delle loro mansioni sarebbe, così, funzionale a tenere bassi i salari come i diritti di tutta la classe lavoratrice: la flessibilità, il part time, i contratti a progetto e tutto l’arcipelago di nuove forme contrattuali esistenti non sono altro che la generalizzazione delle caratteristiche tipiche del lavoro femminile. A partire dal punto di vista delle differenze di genere esistenti nel mercato del lavoro, è possibile andare a definire come e dove queste si realizzano: il mercato del lavoro vive di asimmetrie di genere, caratteristiche specifiche del lavoro femminile, classificabili in tre macro aree. La prima e più studiata è la segregazione di genere, cioè una concentrazione asimmetrica di donne e uomini nei differenti ambiti e posizioni del mercato del lavoro. In questo gruppo la più diffusa è la segregazione orizzontale o sex typing, definizione che riassume la tendenza dell’occupazione femminile a concentrarsi in determinate professioni
o settori, a causa di stereotipi sociali e culturali per cui si considera normale che esistano “lavori da uomini” e “lavori da donne”. A seguire c‟è la segregazione verticale o tetto di cristallo: lo squilibrio esistente tra i due sessi nel ricoprire posizioni organizzative o di responsabilità nel mercato del lavoro, più si sale la piramide gerarchica, più la presenza delle donne si assottiglia. Dalle analisi statistiche scopriamo che le imprenditrici in Italia sono il 19% del totale, le dirigenti il 27%, le libere professioniste il 29%, le dirigenti medici di strutture complesse il 13,2%, le donne prefetto il 20,7%, le professoresse ordinarie il 18,4%, le direttrici di enti di ricerca il 12%, le ambasciatrici il 3,8% e nessuna donna è ai vertici della magistratura , mentre tra le imprese private la presenza delle donne nei Consigli di Amministrazione, Collegi Sindacali e Direzioni Generali nel 2010 non ha raggiunto i 7 punti percentuali di media – nel 1994 non toccava i 2 – e le imprese femminili sul territorio nazionale, sempre nel 2010, passano da un massimo del 9 in Liguria ad un minimo del 1 per cento in Abruzzo . In crescita negli ultimi anni è la segregazione contrattuale, la diversa distribuzione di genere nelle tipologie contrattuali esistenti, dove al crescere di forme di lavoro “atipiche” le lavoratrici riempiono le fila di quelle più precarie e con meno diritti. Questa forma di segregazione interessa più i giovani lavoratori per i motivi sopra citati, tra questi le giovani donne hanno più frequentemente un lavoro a tempo determinato, il 34,8%, rispetto ai loro colleghi uomini che si attestano al 27,4% e il fenomeno cresce con l’alzarsi del titolo di studio: 28% tra chi ha un titolo di studio basso, il 35% delle diplomate, 40,6% tra le laureate. Più degli uomini le donne hanno un contratto part time, 31,2% contro 10,4%, e la percentuale si alza al sud 38,1% contro 11,8% degli uomini, al centro sono il 32,5 contro 12,2%, per scendere al nord 27,5% contro l’8,7% dei loro conterranei uomini. Altro aspetto tipico di questo sistema lavorativo è il sottoutilizzo del capitale umano, cioè lo svolgere un lavoro al di sotto delle proprie capacità che coinvolge il 34,8% delle giovani donne contro il 32,5% dei loro coetanei, fenomeno in crescita negli ultimi anni – nel 2005 coinvolgeva il 28,5% delle giovani lavoratrici, nel 2007 il 31,7% e nel 2009 il 33,8%. La seconda macro area delle asimmetrie classificate è una diretta conseguenza delle tre forme di marginalizzazione sopra descritte: fenomeni di discriminazione tra i due sessi che coinvolgono le donne nell’accesso, nelle condizioni di lavoro e nella retribuzione. Quest’ultimo è il caso più studiato in quanto è più facile reperire i dati, compito più arduo quando si tratta delle discriminazioni all’accesso e nelle parità di trattamento tra uomini e donne, essendo queste, in teoria, punibili dalla legge. Sulla disparità nei trattamenti finanziari invece c’è una lunga letteratura in merito: la retribuzione netta mensile delle dipendenti è inferiore di circa il 20% a quella degli uomini (nel 2010 1.096 contro 1.377 euro), anche se il divario si dimezza considerando i soli impieghi a tempo pieno (rispettivamente 1.257 e 1.411 euro); tra gli occupati full-time, differenze significative permangono per le laureate (1.532 euro rispetto ai 1.929 euro dei maschi) . Questa forma di discriminazione è una diretta conseguenza della precarietà, perché se è
pur vero che le modifiche del mercato sono un processo di femminilizzazione che vede una generalizzazione delle caratteristiche tipiche del lavoro delle donne anche a gli uomini, le regole restano maschili, soprattutto nei gradini più alti della scala sociale, e non tengono conto materialmente della vita delle donne, delle loro specificità e dell’oppressione storica che coinvolge il genere. Sotto il profilo dell’aumento dell’occupazione a seguito della crisi i dati dimostrano che, sebbene il fenomeno abbia coinvolto molte più donne che uomini, quella femminile spesso è avvenuta nelle professioni con un minore status sociale: sempre nel 2009 le cosiddette “professioni non qualificate” hanno registrato una diminuzione di 11 mila unità di manodopera maschile a fronte di un aumento di 99 mila unità di manodopera femminile; sempre tra le donne non si registrano perdite nei lavori a domicilio e si fermano al 5% quelle tra i dipendenti, mentre sono donne il 39% dei perdenti posto tra i lavoratori in proprio, il 24 dei liberi professionisti e il 46 dei lavoratori indipendenti. La crisi ha reso ancora più spesso il tetto di cristallo. In generale gli andamenti sopra descritti si riproducono in Europa in un contesto di diffusione di processi di precarizzazione, che hanno aumentato le differenze di genere esistenti: – in UE il calo dell’occupazione maschile è generalizzato: dal 2008 al 2013 si registra un calo del 4.4% per gli uomini e una tenuta dell’occupazione femminile (che scende solo dello 0.4%); – la dinamica dell’occupazione femminile a livello UE è variegata: crescono Germania, Belgio, Austria, ecc. ma le perdite sono consistenti in Spagna (-10.6%), Grecia (-18%), Portogallo (-10.7%). Di fianco a una diminuzione delle possibilità di emancipazione delle donne attraverso il lavoro, a seguito delle politiche di austerity, in Italia come in Europa abbiamo/stiamo assistendo a fortissimi tagli alle forme di sostegno alla conciliazione: in Bulgaria dal settembre 2009 a fine 2011 sono stati chiusi 21 ospedali; in Inghilterra il sussidio di buona salute previsto per le donne incinte, gli assegni famigliari e i crediti d’imposta legati alla nascita di un figlio sono stati tutti ridotti o congelati; in Germania nel 2010 le donne disoccupate sono il 47%, ma solo il 28% ha ricevuto l’indennità di disoccupazione; in Spagna il Ministero per l’Uguaglianza – il corrispettivo italiano del Ministero per le Pari Opportunità – è stato soppresso, mentre in Italia il bilancio delle politiche famigliari è stato decurtato del 70%; in Francia sono state chiuse le scuole materne pubbliche e gratuite per i bambini a partire dai 2 anni a favore dei nidi, “jardins d’éveil”, privati e a pagamento. Vediamo come in Italia, un paese dall’alto tasso di welfare familistico la mancanza di garanzie nel mercato del lavoro e di servizi di sostegno al reddito perpetuano una cultura della donna come unica responsabile della cura delle nuove e vecchie generazioni. Nel 2012 il 22,7% delle giovani madri, a due anni dalla nascita del figlio, non svolgeva più il lavoro che faceva quando è rimasta incinta, contro una quota del 18,4%
rilevata nel 2005 e del 19,9% del 2002. Tra queste il 23,8 % ha dichiarato di essere stata licenziata, il 19,6 di aver smesso a causa della cessazione dell’attività e il 67,1% che l’attuale situazione è frutto di una scelta dovuta all’inconciliabilità tra il lavoro e la maternità. Tra quelle ancora lavoratrici aumenta, rispetto alle precedenti inchieste, la percentuale di chi dichiara di aver problemi nella gestione del tempo tra il lavoro e la cura, la quota sale al 43,1 per cento, mentre nel 2003 era al 36,4 e nel 2005 al 39,2%. Infine va segnalato che in Italia sono il 51,9 per cento le coppie in cui la donna non percepisce alcun reddito – dopo di noi solo Malta ha una percentuale maggiore in Europa – e, in un periodo di crisi, l’assenza di un secondo reddito espone queste coppie, per il 39,5%, al rischio di povertà e per il 24,8 % di cadere nella deprivazione materiale. Nel 2006 l’Istat pubblica un’indagine multiscopo dal titolo Avere un figlio in Italia. Approfondimenti tematici dall’indagine campionaria sulle nascite. Anno 2002, con l’obiettivo di indagare i motivi della bassa natalità del paese volto a sviluppare politiche demografiche efficaci. Il campione dell’indagine erano le famiglie con un figlio tra i 12 e i 18 mesi e particolare attenzione è stata data al lavoro della madre prima e dopo la nascita del figlio, al fine di cogliere le eventuali variazioni: all’inizio della gravidanza il 58,8% delle madri lavorava e di queste il 20% non ha continuato dopo il parto; tra quelle che hanno abbandonato il lavoro il 68,8% si era licenziata, il 6,9% era stata licenziata, per il 24,1 era cessata l’attività e lo 0,2% non sapeva rispondere; il 20,3% di quelle che si erano licenziate afferma che il lavoro era inconciliabile con gli impegni familiari; tra le donne che hanno mantenuto il lavoro dopo il parto il 28,1% ha dichiarato di aver subito delle variazioni nel proprio lavoro, per quanto riguarda il tipo di mansioni, il regime orario, le responsabilità, la formazione e le opportunità di carriera. Nuove forme di famiglie Questa introduzione prova a indagare anche la relazione tra orientamento sessuale e mercato del lavoro, intesa sia come analisi qualitativa e quantitativa della partecipazione al ruolo del mercato del lavoro nelle possibilità di emancipazione dei singoli partecipazione al mercato del lavoro. Da premettere che il soggetto LGBTQ nella statistica ufficiale è quasi del tutto assente: nel 2011 vi è stato il primo censimento delle coppie dello stesso sesso è stato un flop, che registra 7.513 coppie, 3.133 al Nord Ovest, 1.584 al Nord Est, 1.530 al Centro, 1.266 al Sud e nelle Isole. 529 le coppie che hanno un figlio. In totale 15.026 persone che hanno dichiarato di far parte di una coppia omosessuale su 59 milioni di abitanti. Il dato è chiaramente gravemente sottostimato e ciò dipende da diversi fattori: – le statistiche ufficiali del mercato del lavoro non contengono informazioni che permettono di caratterizzare l’universo LGBTQ e di studiarne e seguirne le dinamiche. – l’indagine sulla popolazione omosessuale nella società italiana costituisce un punto di partenza informativo che ha svelato l’opinione degli italiani nei confronti dell‟omosessualità, compresa quella sulle coppie gay e lesbiche. In generale è difficile rappresentare la relazione tra mercato del lavoro e orientamento
sessuale, perché tutti i classici esempi da luoghi comuni – i commessi dei negozi di vestiti sono tutti gay, come gli stuarts o i parrucchieri, le lesbiche sono del tutto assenti anche dagli stereotipi – sono, frutto di modi di dire e l‟orientamento sessuale non può essere una forma di richiesta al momento dell‟assunzione. Va pur detto che una delle poche analisi, qualitative e non quantitative, condotta dal Arcigay nel 2011 – più che segnalare un gender typing descrive un mercato del lavoro fortemente segnato dal pregiudizio, dove il/la singolo/a ha remore a dichiarare il proprio orientamento sessuale per paura di essere deriso dai colleghi o discriminato dai propri datori di lavoro. I ricercatori sottolineano che spesso l‟omofobia più che essere esterna è un processo interiorizzato, frutto dell‟istinto di sopravvivenza del singolo. Alla luce dei fatti di cronaca, delle dichiarazioni politiche e dei provvedimenti folli dei ministri di questo governo, ci sembra un dato reale che in Italia siano solo 7.513 le coppie dichiarate omossessuali, quanto piuttosto un meccanismo di omofobia interiorizzata/vissuta che si ripercuote anche in un anonimo censimento? Verso lo Strike Meeting#4 Politiche migratorie e sfruttamento del lavoro migrante LOTTE DI CLASSE Thu, 12/02/2015 – 17:35 Di Big Bill Haywood Nell’indifferenza istituzionale rispetto alla gestione dei flussi migratori da una sponda all’altra del Mediterraneo le stragi di Stato continuano a mietere morti. Nel frattempo si fa di tutto per dimenticare il business della cosiddetta “emergenza immigrati” e dei campi rom che Mafia Capitale
ha reso mediaticamente più chiaro ed evidente. Continuare ad indignarsi e denunciare l’ipocrisia nazionale ed europea, alla quale il premier Renzi e il Ministro Alfano non si sono sottratti, è assolutamente necessario ma non basta. Serve essere a supporto e dalla parte dei migranti, delle loro continue lotte contro le diverse forme del razzismo istituzionale, che si esprime attraverso il dominio e il controllo sulle proprie vite e sui propri corpi, e che si protrae col disciplinamento sociale nei rapporti di lavoro. Il loro protagonismo lo hanno ribadito con le rivolte all‟interno dei Cie e dei Cara, nelle strade e campagne di tutt‟Italia, come a quella di Rosarno nel gennaio del 2010, lo hanno sperimentato con „un giorno senza di noi‟ del lavoro migrante del 1° marzo 2010 al quale è seguita l‟esperienza dello sciopero bracciantile di Nardò nell‟agosto del 2011 e quella più recente nel settore della logistica. Per non limitarsi solo alle reazioni emotive e all’indignazione è necessario indagare come gli interventi legislativi, gli interessi economici e produttivi incidono sulle condizioni dei migranti e non solo. La vicenda dell‟uccisione di Jerry Masslo nel 1989 portò alla luce il razzismo connesso allo sfruttamento dei braccianti agricoli migranti, quando il 20 settembre fu organizzato lo „sciopero nero‟ di Villa Literno (Caserta) e il 7 ottobre convocata una manifestazione nazionale antirazzista a Roma, a cui parteciparono circa 200 mila persone. Da un punto di vista legislativo gli effetti di quella mobilitazione si ebbero con l‟approvazione della legge Martelli, che ridefiniva lo status di rifugiato, prima di fatto riservato ai soli cittadini dell‟est Europa, e introduceva una legislazione organica sull‟immigrazione. Eludendo le rivendicazioni dei migranti, non si fece altro che ratificare anche in Italia quella che negli anni successivi si è rivelata una trasformazione epocale del diritto di asilo dopo la caduta del muro di Berlino. Con la Legge Martelli dell‟89 in materia di immigrazione si afferma una maggiore rigidità della programmazione dei flussi e del regime delle espulsioni, producendo una netta distinzione giuridica e separazione di trattamento tra migranti regolari e irregolari. E‟ un provvedimento che fa da apripista alla legge del ’98, la Turco-Napolitano che irrigidisce ancora di più la distinzione tra migranti regolari e „clandestini‟ con l‟istituzione dei Centri di permanenza temporanea (Cpt), introduce maggiori restrizioni per l‟ottenimento del permesso di soggiorno. Il cerchio si chiude con la legge Bossi-Fini del 2002 che introduce i Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e lega l‟ottenimento del permesso di soggiorno ad un contratto di lavoro o ad una quota di reddito prevista dalla legge. (si veda ‘La normale eccezione’ cap II Ed. Alegre 2011) Le normative nostrane all’interno della ‘Fortezza Europa’ continuano a creare volutamente condizioni di precarietà nei percorsi di accoglienza e regolarizzazione dei migranti. I flussi migratori che si collocano all‟interno dei processi di mobilità globale diventano sempre più funzionali al mercato del lavoro, alle sue esigenze di domanda di forza-lavoro usa e getta. Le istituzioni, ormai in concerto con i sindacati confederali e il mondo della cooperazione governativa, da più di un decennio dichiarano per decreto l’emergenza immigrazione. Lo decretano periodicamente i vari ministri degli Interni nonostante siano ben consapevoli che si tratta di flussi più o meno preventivabili e per cause di cui lo stesso „democratico e civile occidente‟ è in gran
parte responsabile. Esempio emblematico rimane l’emergenza umanitaria di protezione ed accoglienza temporanea per i migranti provenienti dai paesi del nord Africa (c.d. emergenza Libia), entrati in Italia tra il 1° gennaio e il 5 aprile 2011, per i quali si era delocalizzato alle istituzioni locali la gestione dei fondi per l‟accoglienza, a cui è seguito a causa del suo fallimento un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 18 febbraio 2013, che stabiliva la cessazione di queste misure, attribuendole questa volta alle burocrazie locali del Ministero: prefetture e questure. Il risultato è rimasto sempre lo stesso, una sorta di continua ‘istituzionalizzazione della clandestinità’ consistente nel confinare i migranti in un limbo di attesa, accompagnandoli nell’invisibilità. Che siano centri di prima accoglienza (Cpa) o centri per richiedenti asilo (Cara) si tratta ormai di veri e propri centri di detenzione. Al di là della loro effettiva capienza, i tempi di trattenimento in molti casi superano anche l‟anno, a dispetto delle 2/3 settimane previste per ottenere una risposta per l‟ottenimento della protezione internazionale/asilo politico. Gli stessi ‘ospiti’, appena possono, fuggono verso paesi che garantiscono maggiori prospettive di inclusione, dopo l‟espletamento assai più rapido che in Italia appunto delle procedure per il riconoscimento dello status di protezione internazionale. E’ così che si mettono in moto ulteriori flussi migratori invisibili che innescano sacche di business, traffico di persone che per sfuggire al razzismo istituzionale, ai vincoli sempre più restrittivi della libertà di circolazione, si fanno risucchiare nella ‘clandestinità’ per oltrepassare il confine. Dopo quello in Africa o Medio Oriente, dall’Italia o da qualche altro paese del Sud d’Europa, parte un secondo viaggio per ricongiungersi con l’affetto dei propri cari e/o raggiungere un altro Stato europeo che possa offrire più opportunità di vita e un minimo di welfare. Anche questo processo ancora una volta è innescato da un dispositivo legislativo, questa volta tutto europeo, ossia il Regolamento dell‟Unione Europea 343/2003/CE, definito come trattato di Dublino II attualizzato con Dublino III, per cui la domanda di protezione internazionale si deve fare nel primo paese di arrivo in Europa, dove si è identificati attraverso il rilascio delle impronte digitali, a cui segue l’iter infinito del riconoscimento. Quando il risultato della Commissione territoriale è positivo il rifugiato è obbligato a stazionare nel paese ospitante, senza poter trasferirsi in un altro, se non per un tempo massimo di tre mesi. Ed ecco che una volta ottenuto lo status di rifugiato politico, con le sue politiche d’accoglienza arruffate anche il territorio italiano diventa una prigione a cielo aperto per persone in carne ed ossa, lasciate allo sbando quando sono previste politiche ad hoc, come lo Sprar. Il „Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati‟ è stato istituito ai sensi dell‟art. 32 della legge 189/02 ed affidato dal Ministero dell‟Interno e all‟ANCI mediante convenzione; prevede l‟attivazione di servizi di accoglienza e integrazione per richiedenti e titolari di protezione internazionale mediante una serie di progetti gestiti a livello territoriale dai diversi enti locali che ne fanno richiesta. Il singolo Ente locale usufruisce di finanziamenti messi a disposizione dal Fondo Nazionale per le politiche e i servizi dell‟Asilo e può decidere di affidare, a sua volta, l‟erogazione dei servizi previsti ai vari “Enti Gestori”. Tali progetti, rivolti a richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione sussidiaria e umanitaria, hanno come obiettivi principali quelli di garantire misure di assistenza e di protezione della singola persona; favorirne il percorso verso la (ri)conquista della
propria autonomia. Ma tutto questo il più delle volte rimane sulla carta o sulla presentazione dei vari siti web. Ormai la realtà della prima e seconda accoglienza parla di continui appalti (il più delle volte in deroga, dato il carattere emergenziale), voci di spesa, circolari governative e prefettizie per l‟allestimento di campi, tendopoli, container. A definire e disciplinare le gerarchie del razzismo istituzionale tra gli stessi migranti esiste anche il cosiddetto ‘permesso di soggiorno a punti’. Entrato in vigore nel 2012 con un decreto dell‟allora Ministro Maroni (e rivisto con una delega alle Prefetture nel febbraio del 2014), per una determinata categoria di migranti entrati in Italia dopo il 10 marzo del 2012 è stato introdotto l’obbligo a sottoscrivere un accordo di integrazione, consistente nella firma di una ‘Carta dei valori’, in cui ci si impegna a raggiungere nell’arco di due anni dalla firma un minimo di 30 punti per non perdere il permesso di soggiorno e non essere espulsi. Con le dovute distinzioni la ratio corrisponde a quella del programma della Garanzia giovani, in cui con la firma della Did (Dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro) e con il principio di condizionalità per i giovani NEET tra i 15 e i 29 anni subentra l‟obbligo a rendersi disponibile a farsi formare, ricollocare, ad accettare un eventuale posto di lavoro anche demansionato rispetto alla propria formazione, pena la perdita dell‟opportunità stessa ad essere inserito nel mercato del lavoro, quindi ad essere occupabile. Sulla stessa base col „permesso di soggiorno a punti‟ si stabilisce quali migranti possono conquistare il diritto di restare (o altrimenti ad essere espulsi) e in quale posizione nel mercato del lavoro, a seconda della loro capacità di adeguarsi alle esigenze delle imprese e alle regole della società. Ma per il management delle politiche migratorie i vari dispositivi da modificare periodicamente rimangono delle sfaccettature da utilizzare per tenere a bada il livello di conflittualità e le rivendicazioni che portano con sé i soggetti migranti o per gestire l‟indignazione dell‟opinione pubblica e le voci più o meno autorevoli laiche o religiose che si alzano quando varie tragedie nel Mediterraneo o altrove fanno più eco rispetto ad altre. La sostanza strategica tuttavia rimane intatta. Seppur il governo delle migrazioni si fa più umanitario, l’Italia continua ad avvalersi strumentalmente della legge Bossi-Fini per tenere insieme, a seconda delle necessità, tre esigenze di fondo di fronte alle quali non si può fare a meno e che vanno tenute insieme e lungo un delicato equilibrio. Da un lato è necessario rassicurare i cittadini che i confini esterni e interni (il territorio) sono sorvegliati e le minacce di intrusione efficacemente governate se non contrastate. Ed ecco che si alternano politiche di gestione „umanitaria‟ come quella di Mare Nostrum, a momenti di linea dura in cui si respinge o si interviene solo in gravi casi di pericolo come dispongono i vertici di «Frontex», la struttura dell‟Unione Europea che ha il compito di pianificare le politiche dell‟immigrazione condivise da più Stati membri. Dall‟altra parte è necessario rientrare nel “vincolo liberale” delle democrazie occidentali per il rispetto della dignità umana. Ed ecco che qui entra in gioco l‟utilizzo della retorica caritatevole e della pietà nei confronti dei migranti, che continuano ad essere considerati vittime silenziose ed ospiti transitori ai quali offrire servizi legali e burocratici, o oggetti culturali. Nel mondo di mezzo, quello che conta maggiormente,
l’obiettivo di fondo rimane il ‘business dell’immigrazione’ e soprattutto lo screening di un’adeguata forza-lavoro all’interno della crisi dell’economia di mercato. Una crisi che in tutta Europa continua a chiedere braccia e menti flessibili, a basso costo, disponibili permanentemente, ossia occupabili per lavori principalmente dirty, dangerous, demanding (sporchi, pericolosi e pesanti); forza-lavoro da utilizzare e gestire in forma „idraulica‟ nel mercato del lavoro, in base alla “pressione” che la crisi esercita sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita (da licenziare), a seconda dei picchi di produzione: si apre e si chiude così il rubinetto rispetto alle esigenze dell‟economia di mercato.
Fonte: http://www.communianet.org/lotte-di-classe/verso-lo-strike-meeting4-politiche-migratorie-e-sfruttamento-del-lavoro-migrante
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