Puntualmente dopo ogni manifestazione con scontri e tafferugli vari, esce fuori la discussione sull’opportunità o meno di avvalersi di metodi violenti nelle piazze, sull’utilizzo o meno dell’azione diretta come pratica politica o se usare solo quella del conflitto sostenibile e responsabile, e di seguito tutte le analisi del caso, aiutate dalle solite veline giornalistiche e questurine, che mettono la diatriba all’ordine del giorno, il loro.
È un tema trito e ritrito, un ritornello che viene riproposto ogni qualvolta nelle piazze si riesca a superare la logica della sfilata simbolica e si tenti di difendere le proprie scelte di rottura del meccanismo della compatibilità delle lotte.
Già dalle ormai famose giornate di Genova del G8 il tema è pervaso su tutte le aree più sensibili dell’antagonismo, ma anche su tutto l’arco politico sociale, creando discussioni e fratture irrecuperabili che si trascinano fino ad oggi. Con il cadavere ancora in piazza di Carlo e con il suo sangue per strada ancora caldo, la discussione generale veniva incanalata su possibili responsabilità da attribuire non alla sbirraglia direttamente responsabile dell’assassinio, ma anche su chi, con la violenza, avrebbe portato la guerra nelle strade genovesi, con quel tragico epilogo. In quei giorni di battaglia, è giusto ricordare, non fu utilizzata nessun’arma da fuoco e nessuna strategia militare da parte dei manifestanti da contrapporre alla durezza dello Stato: le controparti erano in netto squilibrio di forze e di reazione. Ci fu violenza? Si poteva essere pacifici? La risposta è semplice, basta dare un’occhiata alle interminabili sequenze di ore e ore di filmati per capire bene e senza fraintendimenti quel che successe in quei giorni.
L’area pacifista o più restia alla difesa dei cortei o ad un’azione di lotta incisiva, utilizza argomentazioni deboli che si scontrano con la storia stessa dei movimenti di resistenza agli ordini costituiti più sanguinari e repressivi, ed è l’area più sfruttata dalla repressione per colpire il dissenso; più sfruttata, per creare fumose analisi e spaccature nella lotta. La stessa area che oggi sbandiera i colori arcobaleno in piazza, dovrebbe ricordarsi che anch’essa ha il vestito macchiato con gli schizzi del sangue delle ghigliottine e barricate francesi, di un bel po’ di tempo fa, che permisero la nascita delle moderne democrazie liberali, della pace e della fratellanza fra i popoli; gli stessi indiani del mitico Gandhi riuscirono a togliersi di dosso il tallone coloniale inglese anche a colpi di archibugi, perché consapevoli che le prediche non violente non sarebbero bastate contro la tirannia e il sopruso, così come i nostri partigiani antifascisti stancatisi dall’attendismo di chi pensava di combattere con gli interventi parlamentari il fascismo – che era formalmente legale, governava le istituzioni e aveva le sue leggi. E così via.
La rivoluzione del linguaggio imposta dal potere coinvolge quindi anche il fenomeno delle “piazze” ed il vivere comune e così le parole vengono stravolte di significato e di senso, come la parola “violenza”, che viene usata con molta superficialità e confusione, e riferita, ecumenicamente, a tutti i contesti.
Un manifestante antimilitarista che aborrisce la guerra e pratica il sabotaggio per evitarla e che, con un po’ di fantasia, determinazione o con la bacchetta magica, riuscisse a fermare una corazzata o un caccia pronto a sganciare tonnellate di morte su un villaggio di civili, verrebbe considerato un violento che pratica azioni illegali, perché andrebbe contro lo Stato che, in questo caso, la guerra la pratica.
L’operaio della fabbrica di Domusnovas, invece, che costruisce le bombe Mk82 o il pilota dell’aereo che le sgancia sopra le case dei civili yemeniti (ma possono essere palestinesi o siriani o chissà chi altri ancora) maciullando esseri umani, fra cui tanti bambini, sarebbero considerati alla pari del chirurgo che cerca di ricucire gli stessi bambini martoriati da quelle bombe.
Ognuno fa il suo lavoro, senza violenza, senza illegalità.
Per il padrone, invece (e per la polizia che lo difende) è violenza lo sciopero che blocca la sua fabbrica perché intacca il suo profitto e mina la sua ricchezza mentre l’operaio che difende la sua dignità, utilizzando questa pratica, rischia di andare oltre i confini della cosiddetta legalità o di essere ucciso, come Abd Elsalam Ahmed Eldanf, egiziano di 53 anni, padre di cinque figli, travolto da un tir manovrato da un padroncino a Piacenza durante uno sciopero, appunto.
Quando la dignità dell’operaio viene calpestata dalle stesse leggi della democrazia parlamentare – come il Jobs act – che favoriscono i padroni e il loro profitto, il discorso è chiuso. Non c’è discussione oltre le leggi dello Stato, non c’è violenza dentro lo Stato.
Prima di arrivare a Capo Frasca il 23 novembre, nelle assemblee preparatorie cui hanno partecipato tutte le aree antagoniste, antimilitariste, comuniste, anarchiche, indipendentiste e anche pacifiste presenti in Sardegna, si è arrivati alla conclusione, apertamente e con voce chiara per chiunque volesse ascoltare, che per ostacolare la guerra e le sue atrocità, come azione dimostrativa bisognava, semplicemente, “aprire” la Base con la violenza delle cesoie e impossessarsene per qualche momento, decisivo per fermare le esercitazioni militari, utilizzando metodi che la classica prassi pacifista rifiuta solo per partito preso. Per far questo si era coscienti che tutto poteva succedere perché le forze di sicurezza e per la legalità, ovviamente, non lo avrebbero consentito. E così è stato.
Lo scontro non si è innalzato perché qualche decina di metri di reti è stata tagliata innescando la reazione dei difensori-della-patria e scatenando così paura e panico tra la folla. Il punto è che lo scontro è già altissimo, e se non capiamo questo allora non abbiamo capito molto di quanto ci circonda.
Gli scontri, le reti divelte, i sassi e i manganelli, sono lo specchio di questa società; ogni parte in causa cerca di dimostrare le sue ragioni. Non esistono mele marce da una parte e violenti dall’altra, esistono due percezioni diverse del viversi il mondo: c’è chi – da una parte – se lo vive bene e ben se lo difende con lo scudo, l’arroganza e manganello e chi – dall’altra – lo sogna diverso, lo vuole cambiare con determinazione, coraggio, qualche pietra se necessario e, naturalmente … qualche bacchetta magica.
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