… Non mi uccise la morte …
Le immagini dei cadaveri tumefatti di giovani uccisi dalle forze dell’ordine ormai si sovrappongono e si accumulano e accomunano in un macabro rituale che sembra non finire. Giuliani, Aldrovandi, Cucchi o Uva sono gli involucri della triste conta in cui solo le lacrime e la rabbia dei loro cari perseverano nel ricordarli. Il teatrino imbastito dallo Stato con i suoi processi, rasenta l’indecenza e la sopraffazione ormai senza nessun contegno. Vogliamo ricordare questi quattro casi, non perché siano più eclatanti di altri, ma solo perché gli altri sono ormai a decine e servirebbe una sorta di cronistoria infinita.
Carlo Giuliani aveva ventitré anni, era un resistente e lo è stato fino in fondo in quella dannata giornata di Genova del 2001. Carlo si è trovato nella traiettoria dello Stato e del suo proiettile, mentre la sua vita di lotta e di giustizia si contrapponeva alla logica del potere, in un frangente in cui il potere non ha esitato a vomitargli contro la sua brutalità, togliendolo alla lotta e ai suoi cari. Carlo è stato assassinato con un colpo in fronte e poi calpestato dal mezzo degli sbirri. Il resto è storia nota. Vorremmo ricordarlo con una scritta apparsa a Genova dopo il G8 : Carlo è vivo, i morti siete voi.
Federico Aldrovandi era un giovane ferrarese di 19 anni ed è stato ucciso nella notte del 25 settembre del 2005 dopo un pestaggio da parte delle forze dell’ordine, mentre rientrava a casa dopo una serata passata con gli amici. Dopo due anni di depistaggi e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza degli agenti, si arriva ai primi processi che vedono imputati i quattro poliziotti che quella sera fermarono Federico. La sentenza definitiva è di tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo. Gli imputati in questione non si toglieranno mai la divisa di dosso e continueranno ad onorarla per sempre fedeli. Durante il congresso del Sindacato Autonomo di Polizia ad aprile del 2014, i quattro condannati vennero accolti con fragorosi applausi. Vorremo ricordare le parole di Patrizia Moretti, la madre di Federico: “dovremo essere orgogliosi di questo Stato?”
Stefano Cucchi aveva 32 anni, lo arrestarono a Roma il 15 ottobre 2009 per possesso di alcuni grammi di hashish e di cocaina e fu tenuto in una cella di sicurezza della caserma Appio-Claudio. L’indomani mattina, al processo per direttissima, Stefano si presenta con evidenti ematomi agli occhi e al volto e a mala pena riesce a camminare. Il giudice nonostante queste condizioni, ne conferma il fermo e viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Le condizioni del giovane si aggravano e una settimana dopo muore nell’ospedale Sandro Pertini. Da qui inizia la storia giudiziaria sull’ormai famoso caso Cucchi. Nel gennaio 2011 vengono rinviati a giudizio 12 persone fra cui medici, infermieri e tre guardie carcerarie; a giugno 2013 arriva la prima condanna ai sei medici dell’ospedale, da otto mesi a due anni di carcere. La famiglia Cucchi non crede alla versione della Corte ma è convinta che il loro caro sia morto per i pestaggi in carcere. La loro lotta va avanti ma lo Stato si assolve scaricando le responsabilità ai medici dell’ospedale. Inutile ripescare le frasi dei vari Giovanardi o La Russa che vomitano offese persino sul cadavere di Stefano.
Giuseppe Uva era un operaio, aveva 43 anni ed era di Varese. Il 13 giugno del 2008 si trova in un bar insieme agli amici e dopo diverse bevute escono a piedi nelle vie della città. Si trattiene in giro con l’amico Alberto Biggiogero, si divertono e fanno baldoria e nel frattempo arriva una pattuglia della polizia che li ferma. Secondo la testimonianza del Biggiogero, appena il capo pattuglia vede Uva, lo apostrofa subito, dicendogli che quella notte gliel’avrebbe fatta pagare cara. Nel frattempo arrivano altre due pattuglie, prelevano i due e li rinchiudono nella caserma di via Saffi, sempre a Varese. I due vengono separati in due stanze distinte e dalla sua il Biggiogero testimonierà di sentire delle urla disumane provenienti dalla stanza dove c’era il suo amico. Da quella stanza intravvedeva un via vai di carabinieri e poliziotti e, rimasto solo, prima che gli tolgano il telefono, decide di telefonare al 118 dicendo di mandare un’ambulanza perché stanno massacrando il suo amico. L’operatore del 118 richiama in caserma per verificare l’attendibilità di Biggiogero e i carabinieri confermano che si tratta di due ubriachi messi in gattabuia, ma che non c’era nessun tipo di problema; telefonata confermata dai tabulati e documentata nei processi. Dopo una mezz’ora arriva in caserma una guardia medica che prescrive un Trattamento sanitario obbligatorio per Giuseppe Uva con la motivazione che questi si feriva da solo sbattendo la testa al muro e agli anfibi dei militari, insomma i poliziotti, come da loro dichiarato, “frapponevano” i loro stivali fra la testa del fermato e il pavimento per non farsi troppo male … Ogni commento è superfluo … Il 14 giugno Giuseppe Uva viene ricoverato nell’ospedale psichiatrico e alle 11 di mattina muore. La sorella Lucia che l’ha visto all’obitorio descrive il corpo di Giuseppe in questo modo: Una grossa tumefazione viola ricopriva il suo naso, la nuca era segnata da un bozzo gonfio. Scendendo lungo il corpo, si trovava un livido enorme sulla mano e il fianco era attraversato da lunghe strisce viola. Un pannolone bianco da adulto incontinente gli cingeva i fianchi: a spostare i lembi, di quel pannolone, si vedevano i testicoli tumefatti e una traccia di sangue che fuoriusciva dall’ano. Partono così gli accertamenti e una parvenza di indagine per far chiarezza sulla fine dell’operaio, ma tutto finisce come sempre. E’ proprio di questi giorni l’assoluzione con formula ampia di tutti gli imputati e nell’aula del tribunale fra gli sbirri che festeggiano si sente l’eco delle urla della sorella di Giuseppe: “Vergogna”, “maledetti”…
Ovviamente il nostro pensiero si estende verso tutti gli altri, i vari Riccardo Rasman, Giulio Comuzzi, Marcello Lonzi, Aldo Bianzino , Michele Ferrulli, Franco Mastrogiovanni, Dino Budroni e tanti ancora, ma anche al giovane Giulio Regeni massacrato dai servizi segreti del governo egiziano, e ai giovani afroamericani uccisi quotidianamente dalla polizia nelle strade degli States, uccisi perché poveri, neri e indifesi. Vite diverse e contesti differenti, ma tutte legate da una sorta di filo rosso, di sangue, che li accomuna tutti, in cui le lacrime dei loro cari non riescono a placare la sete di giustizia.
Assassinu de Istatu
Cucchi, Giuliani e a dekìnas
Sunt mortos in manos de s’Istatu,
mortos dae sa manu assassina
de sa divisa de theracu cumannatu;
su potere l’assolvit cantu prima
ca n’est fieru de su suo operatu,
ki distinghet su valore de sa morte
si ses riccu o si ses in mala sorte.
Nikola
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